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2022-08-13 08:54:44 By : Ms. yu Qin

Wait a minute! I think I left my consciousness on your front doorstep

Wait a minute! I think I left my consciousness in the sixth dimension

But I’m here right now - just sitting in a cloud oh wow.

Sono sul divano, il mio pollice fa swipe su ancora una volta, sto guardando Tik Tok. Vedo il video di due ragazze che si fissano intensamente, una sorride all’altra, la avvicina a sé con forza e la bacia. Si separano, ridono. Il loop ricomincia. But I am here right now, just sitting in a cloud, oh, wow. Swipe, ecco una fancam su Tony e Shelby di The Wilds con E.T. di Katy Perry come colonna sonora. È il 2022, l’algoritmo mostra sul mio telefono ciò che mi piace e tra l’uno e l’altro mi perdo nei pensieri.

Immagino come sarebbe baciare le labbra di una delle mie Instagram crush. Il sapore e i profumi che sentirei. Lo faccio perché pensare è bello, perché amare le donne è bello. Lo faccio - e poi un altro algoritmo mi bussa alla porta, quello che mi propina nuovi post indignati sull’ennesima notizia di un ennesimo personaggio LGBTQ+ nei videogiochi, in un film, nei telefilm o fumetti. Leggo i commenti, riassumibili in un interrogativo “perché da qualche anno ci sono così tanti personaggi gay?”. E come in una serie tv, parte un flashback.

Mi chiedo come sarebbe stata la mia adolescenza se avessi avuto serie come Heartstopper, per non parlare in generale di tutte le produzioni Netflix che oggi pullulano di rappresentazioni di persone LGBTQIA+. Io sono nato all’inizio degli anni ‘80. Da bambino non avevo niente di tutto questo. Però avevo un eroe, che combatteva. Combatteva accettato da un gruppo e con l’armatura rosa. Mi riferisco ad Andromeda, dei Cavalieri dello Zodiaco. Ora, da bambino, non è che fossi in grado di dire “probabilmente questo personaggio è omosessuale o ha un’identità di genere che non è interamente maschile”, non facevo questo ragionamento; ma lo sentivo simile. Aveva il mio stesso tipo di sensibilità (e poi ero fissato col rosa) quindi vedere questo personaggio accettato da un gruppo di amici, in questo caso tutti maschi, che combatteva con la sua armatura rosa e che veniva valorizzato per la sua sensibilità, per me ha significato tantissimo, veramente tantissimo. Per me quindi il primo esempio di rappresentazione - non posso parlare di omosessualità perché non emerge in quest’anime anni ‘80, ma di divergenza da un certo tipo di standard maschile - è stato sicuramente Andromeda.

Immanuel Casto (he/him), 38 anni, queer | @immanuelcasto

Rivedersi significa esistere. Essere rappresentatə significa avere la possibilità di riconoscersi. La risposta breve a molti commenti indignati sui social è questa: se oggi abbiamo così tanti personaggi dichiaratamente LGBTQIA+ è perché si sta finalmente facendo spazio per tuttə. Quella lunga è la seguente storia: dal 1930 al 1983 due codici in vigore, il comunemente chiamato Codice Hays (dal 1930 al 1968) e il Codice di condotta per le emittenti televisive (utilizzato dal 1952 al 1983) proibivano indirettamente la rappresentazione dell’omosessualità. Le prime raffigurazioni erano negative: dalle vittime di violenza alla pedofilia, l’omosessualità era una caratteristica dei “cattivi”. Qui si parla anche di “queer coding” e possiamo utilizzare gli esempi più noti della cultura pop per spiegarlo brevemente, ossia i film Disney. Hercules e La Sirenetta, Ade e Ursula.

Sebbene questi celebri personaggi non siano esplicitamente appartenenti alla comunità LGBTQ+, richiamano la queerness a causa di stereotipi riconoscibili; un’esagerata femminilità nel caso di Ade e Ursula nata dalla costola della drag queen Divine. Negli anni ‘70 e ‘80 si comincia a rappresentare l’omosessualità come il “problema” da risolvere in un singolo episodio. Finché il coming out di Ellen Degeneres nel 1997 diventa un evento che scardina un po’ tutto e apre le porte agli show con personaggi gay ricorrenti. Dawson’s Creek, Will & Grace, Buffy The Vampire Slayer. Arriva l’anno 2000. I nostri computer sopravvivono al Millennium Bug. Si sciolgono le Spice Girls. Si apre una nuova era.

Quando avevo 16 anni ero già gay, l’ho sempre saputo e nemmeno fatto grande fatica ad accettarlo. Quello che mi mancava, però, erano modelli di riferimento. La tv, i giornali, libri e fumetti era sempre etero e ovviamente cis. Gli unici uomini gay della tv generalista erano uomini con cui io non condividevo niente, perché erano lì per rendere l’uomo gay “accettabile” e “tollerabile”. Mi sentivo lontano quindi dalla mia comunità, pensavo di essere gay in maniera sbagliata. Sì, ero anche omofobo forse dentro di me. A cambiare tutto questo è stato Queer As Folk (US). Non dimenticherò mai quando ho visto il pilot di quella serie: controversa, complessa, difficile, cruda e spesso senza pietà. Ho visto cosa era la comunità LGBTQIA+, ho capito che esistono tanti modi di essere gay e sono tutti modi giusti.

Aldo Mastellone (he/him), 31 anni, gay | @solodallamente

Abbiamo parlato della storia della rappresentazione LGBTQIA+ dal punto di vista americano, poiché meglio documentata di quella italiana, ancora ad oggi povera di riferimenti. Lo abbiamo fatto in breve perché è necessario rendersi conto dell’enorme influenza che ha nei prodotti di intrattenimento: l’esposizione a personaggi dichiaratamente LGBTQIA+ attraverso i media ha un impatto non solo per la comunità specialmente in età adolescenziale, ma anche per la popolazione a maggioranza eterosessuale e cisgender su come percepisce l’omosessualità e le visioni politiche attorno al tema.

Ma come accennato sopra, una rappresentazione sbagliata può far peggio di una assente. Perché se è vero che per esistere bisogna riconoscersi, se non succede perché l’esempio mostratoci ha delle caratteristiche diverse o opposte dalle nostre, potrebbe causare uno “strappo” all’interno del percorso di riconoscimento e accettazione di sé. Quindi sfatiamo un altro mito: no, non è più importante “portarci a casa una rappresentazione”.

Secondo i codici citati prima, la TV non poteva rappresentare un bacio tra due uomini, ma nel mondo della fantasia per eccellenza in cui tutto è possibile, quindi il mondo dell’animazione, Bugs Bunny poteva baciare il cacciatore e farlo passare come un momento comico, così come fare travestitismo in molti episodi senza essere dichiaratamente queer. Secondo il creatore Chuck Jones, tutto questo era per rendere il personaggio “divertente”, ma citando Rebecca Sugar, animatrice non-binary creatrice di Steven Universe, “se puoi solo esistere come cattivə o come battuta, cioè, è una cosa veramente pesante da digerire da bambinə”.

Anno 2001, sono un’allegra decenne che va a vedere il nuovo classico Disney al cinema: è Atlantis. In una delle prime scene del film la biondona Helga Sinclair compare nella casa del protagonista, in penombra. Sento il primo scossone al dogma che fino a quel momento ha governato la mia vita: “sei una femmina, devono piacerti i maschi”, ma non ci faccio caso. Magari è solo che vorrei essere come lei, no? Chi non vorrebbe diventare una coccolagatti femme fatale?

Nell’estate del 2003 scopro la seconda serata di Italia 1. Riesco a guardare solo qualche spezzone di uno show ambientato in una Seattle post-apocalittica - quelle piccole scene che riuscivo a vedere prima di crollare mi generano curiosità. Mi ricorderò di questa cosa qualche anno dopo, quando finalmente avrò accesso ad un PC con la 56k. Quando digiterò “Dark Angel” sul motore di ricerca. Economia collassata, lotte di potere, sarcasmo a palate, poteri sovraumani, amori strappalacrime, racconti di diversità: Dark Angel è stato fondamentale per la mia adolescenza. Non solo perché era l’universo in cui lasciavo che la mia fantasia volasse libera, ma è stato anche il primo impulso verso la scrittura. In Dark Angel c’era Original Cindy, donna dichiaratamente lesbica, e in un episodio strappalacrime rincontra il suo primo amore.

Scrivo la mia prima fanfiction, racconto di queste due donne che fanno sesso. Io non sapevo ancora di essere saffica - non lo sospettavo nemmeno. Io lo scrivevo perché vedendo un loro bacio su schermo, scrivere di loro due a letto mi sembrava un più che naturale proseguimento. Non ero ancora pronta ad avere questa epifania, ma Dark Angel mi regalò ancora un’altra scena, che consumai a forza di replay. L’abbraccio tra Max e Cindy. La scena in cui Max, eroina senza legami e con un passato e un presente difficile, abbassa le difese, rischia la vita per l’amica e decide di mostrarsi vulnerabile dicendole la verità. Sono un prodotto di laboratorio. Non avrei mai voluto che mi guardassi come stai facendo adesso, come fossi un mostro che non riconosci. Le due piangono e si abbracciano e si accolgono e io sento inconsciamente quel bisogno di essere stretta tra delle braccia che mi amano così.

Life Is Strange mi ha tracciato dentro una linea fatta di sangue e zucchero, e da allora ho iniziato a credere che il punto era che finalmente c’era una storia d’amore che mi faceva vibrare perché rispecchiava il mio viscerale modo di vivere il legame col femminile. Quando ho dovuto scegliere tra la condanna per una città intera e tutti i suoi abitanti e l’amore, io ho scelto l’amore senza pensarci un istante. La morale si inginocchia, l’etica muore di fronte all’amore folle. In quel momento ho compreso quanto volessi, quanto febbrilmente volessi amare ed essere amata in quell’universo fatto di musica pop-acustica e diner scarsamente illuminati. Ero acerba, ancora impaurita, ancora crocifissa al mio amore per il femminile. Poi è arrivato The Last of Us, parte 2. Le spalle di Ellie. La tensione del suo volto contratto al primo bacio pubblico. La spavalderia fragile dei suoi occhi quando fissa Dina. In quel momento ho sentito il sigillo.

Finalmente avevo smesso di proiettare sui personaggi maschili la mia personalità, finalmente avevo un modello, finalmente l’amore quotidiano, normale, sereno, non aveva altro che i sapori della normalità. E da amore comune, per nulla differente da quello eterosessuale, da amore qualsiasi, fatto di tenerezza e sesso, supporto e incomprensione, si lasciava tracimare e distruggere. Era un amore normale, un amore anti eroico, un amore vincibile. Sentirmi parte di una storia d’amore che viene venduta come il frutto di un atto di coraggio violento, di passione, per poi divenire normale, mi ha spezzata. La rivoluzione LGBTQ+ sta in quella separazione tra Ellie e Dina. Dopo centinaia di film e serie che lucrano sulla promiscuità dei legami tra donne per poi distruggerli con il sempiterno intervento di un uomo che porta una delle due a tradire l’altra (vedi La vita di Adele), arriva un videogioco. Un gioco che finalmente, con un accordo di chitarra amarostico, le bruciature sulle dita e il sangue che riga le membra, racconta un amore straordinariamente normale. Un amore che si fa vincere dall’urgenza dell’individuo di non sopperire e morire in una bolla. Dalla necessità di perseguire una missione interiore, a costo di sfilacciare e dare fuoco al nido dolciastro che si è conquistati. Quello è il momento in cui ho sovrapposto me, il mio vissuto, il mio amore, con uno fittizio, e per la prima volta abbiamo combaciato senza sforzi.

La mia storia continua grazie a Buffy The Vampire Slayer. La quarta stagione viene trasmessa in Italia per la prima volta nel 2001, ma io ribeccherò una delle mille repliche estive di Mediaset. Il primo, vero, terremoto del mio cuore parte dalla storia d’amore tra Willow e Tara. Da quell’episodio, così decisivo per me, che mi fece correre (metaforicamente) verso l’unico negozio di CD e DVD del mio paese per acquistare quell’unico cofanetto contenente solo una parte di quella serie, ma che in cui c'era l’episodio intitolato New Moon Rising. Oz torna in città, ma Willow realizza di essere innamorata di Tara. In camera con lei, dopo un monologo confuso, le due donne si abbracciano, Willow piange e piango anche io. Avevo 16 anni, circa. Adesso ne ho 32 e ho pianto ugualmente rivedendola su Disney+ perché volevo risentire le stesse emozioni di quell'Anna adolescente.

La rappresentazione ci lascia anche tatuaggi mentali, bolle di ricordi che non conserviamo solo per piacere, ma perché diventano parti viscerali di noi. Io non ho avuto solo un primo bacio, ho anche vissuto la prima volta in cui mi sono crollate tutte le certezze. Ed è successo guardando Willow e Tara scoprire di essere più che amiche. Mi sono ricostruita guardando la purezza di un amore fatto di metafore di magia e sesso, di starsi vicine nei momenti difficili e… nella morte.

Le prime opere che mi hanno fatto capire di essere parte della comunità LGBTQ+ sono state senz'ombra di dubbio i manga di Ai Yazawa. Ho divorato Nana e Paradise Kiss, osservando il rapporto intimo tra le due Nana, l'eleganza di Isabella Yamamoto (donna trans) e l'esuberanza di Joji (uomo bisessuale, uno dei primi che abbia mai visto). Quando iniziai a leggere queste opere avevo circa 15 anni e prima di allora conoscevo la comunità LGBTQ+ esclusivamente grazie a Twitter. Leggendo questi manga, ho iniziato ad assaporare una nuova forma di libertà di autodeterminarsi, che prima di allora avevo sempre temuto o rinnegato. Con il tempo ho poi scoperto altre opere molto più complesse ed elaborate, ma considero questi due gioiellini decisamente il mio trampolino di lancio verso un mondo sempre più fluido e sicuro, quale è la comunità nella quale mi sento di appartenere.

Internet diventa la finestra dalla quale, affacciandomi, scopro altre persone “come me”. Persone che shippano Willow e Tara, fanfiction, disegni, fotomontaggi su DeviantArt, discussioni sui forum. Addirittura consigli su altre storie simili. Twitter e i commenti alle puntate. Tumblr e le sue gif ripostate all’infinito che facevano scoprire web series indie fatte con un budget inesistente o nuovi personaggi LGBTQIA+.

Internet, terra di otaku. Del necessario proliferare di manga e anime non ancora arrivati in Italia, Stato monopolizzato da Dragon Ball e un Sailor Moon post censura gay. Il web fornisce comunità e materiali di studio e conforto. Ma anche libere interpretazioni arcobaleno di qualsiasi cosa.

Immagina: sono le tre di notte, sei nella tua camera, le luci sono spente. Fuori è buio, ma visto che è estate, sta ricominciando man mano a fare luce. Sai che fra qualche ora i tuoi genitori si sveglieranno e tu sarai ancora lì davanti al computer a scrivere, a inserirti, a immergerti in un mondo che non è tuo, un mondo che è nato solo perché qualche anno prima hai avuto la fortuna/sfortuna (chiamala come preferisci) di guardare un anime e leggere un manga su un personaggio che ti è rimasto dentro. Prussia, di Hetalia Axis Powers.

Dal 2005 ad adesso, GLAAD, associazione no-profit in prima linea per quanto riguarda la rappresentazione LGBTQIA+ dei media, pubblica un report dettagliato chiamato "Where We Are on TV". Nel primo anno di raccolta dati, il 2005, appunto, erano solo 10 i personaggi LGB regolari. Nessuna persona trans. Solo l'1.4%. La stagione 2021-2022 vede invece 92 personaggi LGBTQIA+ regolari su 775, l’11.9%.

Non avendo avuto la mia “epifania” fino alla prima pandemia, da ragazzina ero convita che per una donna fosse normale provare un certo tipo di attrazione per le persone del proprio genere. La mia illuminazione l’ho avuta guardandomi allo specchio ed ammettendo a me stessa che la cotta che avevo per Shego di Kim Possible a 10 anni non era nient’altro che la mia bisessualità inconsapevole. A proposito, ho saputo che ultimamente Spider-Man è stato reso bi. Il polverone che ha sollevato questa cosa mi fa sentire ancora meno sicura in questo periodo storico, in Italia. Perché da dibattito generale io sono un capriccio, un’indecisa. E di conseguenza non vogliamo dare confusione ai ragazzi. Sei gay? Ti mostro una persona stereotipicamente gay. Transgender? Lo stesso. Non mi ricordo di aver osservato nessun personaggio che non ricadesse nel binarismo di genere, né nella tipicalizzazione degli orientamenti sessuali.

Emanuela (she/her), 22 anni, bisessuale | @weirdema

I numeri sono tanti ed è importante conoscerli. Lo è per due motivi: il primo, per tranquillizzare la paura dei più conservativi, spaventati dalla possibilità che non esistano più storie che parlino di uomini eterosessuali, cisgender. Non è così. Il secondo motivo è l’umanizzazione del dato: nonostante il significativo aumento veniamo ancora rappresentatə come cliché e stereotipi, come spettacolo per un’audience maschile (nel caso di coppie saffiche e bisessualità), come amori impossibili, separati da tragiche morti o da terze persone. Abbiamo il diritto di poter perderci in storie fittizie che non raccontino solo le difficoltà di essere LGBTQIA+; abbiamo bisogno di positività. Di varietà. Di non essere token. Perché l’intrattenimento non è solo relax ma è anche casa, rifugio, educazione e può cambiare le nostre percezioni, in tutti i sensi. E anche chi non fa parte della comunità ha bisogno di rappresentazioni che facciano eco con qualcosa che vogliono decostruire ma non sanno ancora. O anche solo, banalmente, sapere che fuori ci sono anche uomini che si baciano, donne che fanno l’amore e non hanno bisogno di un marito, persone non-binary bisex in una relazione poliamorosa, donne trans lesbiche che distruggono il patriarcato, uomini asessuali con la passione per il calcio e l’uncinetto, uomini gay che non sono la copia di ciò che la tv italiana ci mostra. Tutto questo mondo esiste ed è di tuttə, perché siamo tutti esseri umani che abitano lo stesso pianeta. Che noia sarebbe usare la nostra vita per sognare solo di essere un alieno in una tuta che salva una città e non avere la curiosità di sapere cosa si prova a vivere come la persona accanto a noi.