Ascoltare la notte che è dentro le cose: sulle scritture di Marco Ercolani - Pangea

2022-07-23 05:21:39 By : Ms. Wang Mengya

«Ho teso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e danzo», questa l’immagine di Arthur Rimbaud che viene agli occhi, chiara come un’aurora, alzando un attimo il capo dalle carte di Marco Ercolani: autore immenso, che alimenta il suo maelström letterario negli scritti critici, nella prosa epigrafica, spesso aforismatica, nei sinuosi itinerari apocrifi dal sapore d’interminati pellegrinaggi, dove il santuario sfugge all’ultimo crocevia, per sospingere a un nuovo cammino.

La letteratura di Marco Ercolani è un paradosso concettuale: ponderosa, implacabile nell’indagine, inesauribile nella conoscenza, ma incompiuta per reiterata scelta: scrittore copioso e complesso, polimorfo e apparentemente frammentato, Marco stringe il lettore inavveduto in un assedio di erudizione accanita, restituita in finzioni che, nella loro interezza, s’avvicinano alla vertigine di compresenza di tempo e spazio di un borgesiano Aleph.

«Il caos esiste attraverso il segnale che lo ferma, e la purezza attraverso la confusione che la tradisce» afferma il savio Mo-ch-i, facendo dei segreti della pittura un manuale di esistenza, nella raccolta di racconti apocrifi uscita in questi giorni per Gattomerlino (Marco Ercolani, Le forme dell’aria, Gattomerlino, 2021).

E ancora una volta, in questa sua ultima opera, l’autore è fedele alla propria identità di prosatore: nella forma diaristica dell’appunto, del quaderno di pensieri, rimane errante e incompiuto, senza che venga mai chiuso il cerchio, ma avvicinandosi per orbite ellittiche a una verità sfuggente, a un sublime epicentro di rivelazione che, da ultimo, forse non c’è: «Ma non ti è mai successo di mettere il piede, al buio, sull’ultimo gradino della scala, sul gradino che non esiste?» riporta in Turno di guardia, da un dialogo con un suo paziente.

Ercolani, da psichiatra, ha avuto a che fare a lungo con vite disallineate, cui spesso, con maieutica, è riuscito a dare strumenti di gestione di sé mediante la creazione artistica. Alla stessa maniera, Marco è devoto ad alcune anime trapassate, «artisti fuori norma» di cui egli ha parlato in molti suoi lavori, a volte in forma saggistica (Marco Ercolani, Galassie parallele, il canneto editore, 2019), a volte in forma di scrittura apocrifa (solo per esempio: Un uomo di cattivo tono per Anton Čechov, Il mese dopo l’ultimo per Bruno Schulz, Preferisco sparire per Robert Walser).

Nell’indagare, o meglio auscultare, gli assilli dei suoi spiriti compagni, nel ridar loro voce in scrittura apocrifa, egli li rievoca in sé, e ne insinua le inquietudini nel lettore, come possibilità di prospettiva altra, di meditazione obliqua sull’esistenza. Ed è così che, leggendo di figure smarrite, ci si approfondisce in universi complessi, avvertendoli plausibili. In questo risiede il sortilegio spaventoso di una scrittura che appare teorico-filosofica e invece si fa cattedrale sghemba, ferita beante; l’universo di Ercolani è spazio precipite sul limitare del quale lo scrittore volteggia, ogni volta diverso e uguale a sé stesso, in una pluralità vociante prossima all’asfissia, negoziando l’unità molteplice dell’umana angoscia con l’unicità spezzata e opalescente di ognuno, nel suo privato dramma. Sale alle labbra Rilke: «Gli angeli (si dice) spesso non sanno / se vanno tra vivi o tra morti. L’eterna corrente / trascina sempre con sé per i due regni / tutte le età e le copre col suono».

Ma se Ercolani è angelo, lo è spesso di ombre minute e perse, che seppero solo aggrapparsi all’arte come ultima salvezza da interiorità ustionate. L’espressione artistica è un impulso a riscrivere il reale, in una visionarietà che permette la liberazione dai vincoli senza gettarsi nella completa alienazione. In quest’ottica di creatività e genio come limen si muove il già citato saggio Galassie parallele, in cui Ercolani restituisce nella narrazione la vita e le opere di alcuni artisti anomali: giardini incantati, città ideali, grandi castelli-costellazioni, ambientazioni allegoriche come carri carnevaleschi, accumuli di teste scolpite, architetture di ossa, ricami tersi di quiete, sospesi nel vuoto; scritture indecifrabili, rituali incise sui muri, riversate sulle lenzuola, collezioni di pietre, soggetti pittorici martellanti e destrutturati nelle forme, alterati nelle proporzioni, deformati, e infinite altre varianti di espressione di sé, nel tentativo di «esorcizzare i demoni» (così Bourgeois). Nelle arti figurative, nella rappresentazione teatrale, nella parola poetica, nella composizione musicale, il cosmo viene riscritto in bilico tra le «due realtà sostanziali della follia: il silenzio e il delirio»: l’esito è un «silenzio relativo, sostanziato della materia delle opere», che insegue tracce di percezione ulteriore, o di memoria arcaica della mente umana. La creazione, nelle anime visitate da intuizioni perturbanti, è insurrezione e oltranza, è esposizione e riproduzione dell’immagine urgente e persecutoria; il musicista quando scrive in partitura cerca il soffio oscuro anteriore alla vita, il grido dell’«altare franato» al «centro della basilica» dell’esistente; la poesia alla stessa maniera cerca la «parola archetipale» di René Char, per poi sovvertirla e plasmare un proprio «ordine insorto», varcando sé stessa in perenne inquietudine, in quanto «antitesi tragica a ogni forma di pienezza».

L’artista radicale è solo: «Nessuna divinità cosmica ordina e consola le opere dei sognatori: la vera divinità, non teologica e non teleologica, è la lucidità sonnambolica con cui si riesce a orientare le pulsioni». A quest’assenza di un divino che lenisca e sostenga fa eco Lorenzo Pittaluga, paziente e amico di Marco, creatura celeste sfinita di poesia, che scelse dai suoi garbugli parole esatte, prima di aprire le ali a cerchi d’infinito: «Ora noi non abbiamo che noi – dobbiamo / scontare l’intrico di finitezze e mesti / orgogli: l’infinità non ci cerca: / siamo cantori stonati – senza / più sonore viole – scostàti dal coro»; e ancora: «Cerca l’esca propria, il cappio /benefico, il duri anche poco / di una stagione che sfugge, / cercami un approdo, un pane // e una fiamma: io ci sarò […] Il resto? Il resto solo l’enigma della voce».

Ercolani non vuole sistemi, non cerca verità definitive. Piuttosto, abita l’ipotesi continua, l’affermazione che esaudisce l’attimo, per poi negarla in altro istante, in altra voce, in una filosofia che, osservata in superficie, nelle multiple e politonali voci che ospita, appare anch’essa schizoide, alienata, ma che porta invece, come postura di fondo, una coerente brama di senso, in un desolato presente che, persino nel disagio mentale, s’afferra alla scrittura come salvezza: «Chi scrive rallenta la sua corsa. Prepara un esorcismo. Inventa un rito. Ripara una ferita. Sa benissimo che il precipizio è vicino e lui ci sta correndo incontro. Ma descrivendo le sue esperienze impara a correre più lentamente […] A queste nude e brevi scritture, che non cercano l’ordine dell’opera ma sono frammenti di un’opera imperfetta e inconsapevole, è necessario affidare l’ultima parola per cominciare noi a pensare con loro, e considerare questi discorsi informi, queste angosce appena trascritte, queste “biografie sommarie”, gli autentici punti di partenza di una scrittura estrema».

Lo scrittore, nella continua e sfinente speculazione, sembra far suo l’atteggiamento dell’uomo di scienza pura, che s’approssima al reale per congetture matematiche, portando avanti tesi e antitesi numeriche, in una dialettica tra affermazione e sua negazione che aspira al varco continuo, al superamento, verso un oggetto d’indagine che, più s’avvicina, più si sposta o muta, come un orbitale perturbato dalle manovre d’osservazione: la vera meta della ricerca è forse l’occhio di un timore irrevocabile, il cui reperimento è sublimato nella reiterazione ad libitum dell’esercizio di ricerca stessa, in ogni sua forma.

Non c’è illusione di sistematicità, né conclusione della figura geometrica, in questa scrittura che si carica le spalle delle afflizioni di ogni incompiuta vita, discorso interrotto, somma imperfetta delle parti, equazione algebrica di un’incognita vibrante, celata, sempre in movimento. Solo la scrittura insonne diviene trasparenza dell’aria, leggerezza nel respirare.

Nell’avversione per i sistemi e le affermazioni sinottiche, Ercolani sembra prediligere una costante testimonianza di aleatorietà e smarrimento, in cui l’orma umana abbia il compito di distogliere l’universo per un momento dalla sua crudele fissità, dalla sua integra e gelida eternità: «Ivan non ha fede ma solo pensieri. La Fede provoca roghi e processi […] Tutto è così realmente divino da non avere bisogno di nessun’altra immagine che non sia l’uomo nudo e solo che incontra un altro uomo, nudo e solo come lui».

Strumento dolente e fatato, in questo, la compassione: «Conosco la grazia che si concede alle ossa nude degli uomini, quando vengono viste da altri uomini. È una grazia immutata nel corso dei secoli: dare parole alle vertebre calcificate ai crocevia e sparse nell’erba dei campi, fare che il vento soffi nelle costole e nei teschi come nelle gole della montagna, formando echi di suoni».

Le stesse coordinate di smisuratezza, di totalità riversata in impossibilità, oltre che nella scrittura, si ritrovano in architettura: «Il vero architetto lavora senza una prospettiva, solo su forme continue […] io, uccello inebriato che non penetra l’aria ma la circuisce, la avvolge, se ne colma, tessendo nell’aria traiettorie aeree, piene di profumi e di voli, prospettive interminabili, volte di architetture impossibili…»; in musica: «Coltrane non può interrompere la sua opera […] dissonanti e politonali, le sue composizioni creano nell’orecchio dell’ascoltatore uno spazio nuovo, sconfinato. Ma Coltrane deve suonare, e non smettere mai. È sempre ulteriore»; nella scultura: «Immagina il destino delle statue, una volta finite. Date in pasto agli sguardi, trasformate in feticci e incarcerate nei musei, cominciano a consumarsi, a corrodersi, ad assottigliarsi; lentamente riaffondano nel cavo delle mani che le hanno plasmate e scompaiono. È giusto proteggerle con un velo – difenderle dal nulla. […] Ma ho perso la memoria sono stanco di inventare artifici. Ciò che so, guardando il velo, sono le ore passate a dipingere e a scolpire».

Perché il proposito costante di Ercolani, espresso mediante la voce delle anime in visita, è una pacata, anche se a volte ossessiva affermazione di presenza artistica. Le cose più semplici, foss’anche per il pittore un frutto sull’albero, vanno rappresentate con il loro spessore di eternità, una quarta dimensione di consapevolezza: «Un fondo che non dimentica la gravità della terra, gli sgorbi della materia, la pesantezza del buio. […] la storia del loro restare sui rami, quando il frutto non è ancora visibile, e poi ancora prima, quando il ramo non è ancora nato dal tronco, e prima, quando l’albero non c’era neppure, e poi quando la terra non esisteva ma era una scheggia che galleggiava nel cosmo».

Un’arte che sia ascolto e restituzione, vita che s’impone al nulla, senza invocare significati che oltrepassino o prevarichino la percepita realtà: «Non emettere proclami, ma suggerire un frutto con un’ombra, e un albero con una macchia nera», in un processo che non si concretizza risultato nell’opera d’arte, spesso rappresentata celata o incomprensibile, ma nell’atto creativo stesso, come grido di presenza dell’essere umano, ferito dalla propria caducità, opaco a sé stesso, dolorosamente ammaliato dal proprio mistero: «Le arti si assomigliano: sono incessante apparire, ossessiva rappresentazione […] tutti consegnano il mistero della morte alla cronaca delle immagini. Il mondo non esiste. Io dipingo la mia anima perché il mondo non c’è».

In questa professione di inestricabile, vorticosa infinitezza del reale, la scrittura apocrifa è strumento principe, in quanto permette di esprimere molteplici personalità, di affermare tutto e il suo contrario, di eludere la ricerca di un baricentro: il nucleo di queste orbite, già di per sé ellittiche, non è reperibile; la voce dell’autore – la cui stessa personalità appare mutevole, continuamente cangiante – dà un senso di stordimento che riporta nuovamente a immagini borgesiane: la casa di Asterione, o la città degli immortali, in cui convivono verità opposte, a volte identiche ma diversamente inquadrate, a volte specchiate e capovolte, oppure concatenate come universi che si susseguono, o scorrono paralleli, o si negano l’uno con l’altro, nella vertigine della mancanza completa di coordinate spazio temporali.

Ogni libro cancella il precedente, dice Marco della sua attività di scrittore, perché ciò che è degno d’attenzione non è l’oggetto, ma il gesto. Il prodotto di questo ruotare e vorticare è relativo e ha una provvisorietà costante, non è analizzato nella qualità di stile e contenuto, ma nella verità con cui ha permesso all’artista di lasciarsi attraversare dalla sua percezione. Non c’è differenza tra un paesaggio e uno stato d’animo, rocce e ossa, tra una suppellettile e un’ossessione, tra un suono e un colore, tra parola e sinfonia. La realtà di Ercolani è minacciosa perché, attraverso lui, vuole parlare, e le immagini si disfano e trasfigurano l’una nell’altra finché non si dia loro diritto di esistenza sul foglio, con parole che siano esaustive solo nell’attimo, che non sopravvivano con rigidità allo scorrere alato e terribile di ogni cosa: «il grido, balbettante di fronte all’irruzione di ciò che fa ammutolire».

Leggere e scrivere di Ercolani in senso critico è un atto sacrilego e devozionale insieme, un’ordalia in cui si rischia di dissolvere la propria integrità, perché la sagoma dello scrittore non è riconducibile a qualcosa che si possa comprendere o delimitare, che non sia il continuo vorticare sul limine. Quello che si può avvertire è l’essenza del movimento, lo strazio della posa in opera, nello sgomento dell’inesauribile. Marco è una figura scontornata e demoniaca nel suo candore, che nasce apparentemente da una sensibilità acutissima, il dolore del poeta di «sentir gridare le cose»; una sofferenza condivisa con le anime al margine ch’egli, da medico, ha lungamente curato e sorretto: «È come avere troppe corde. Io mi sento così, troppo sensibile. Tutto mi fa risuonare in modo penoso», gli riferiva un suo paziente, e ancora un altro: «se uno vede qualcosa che gli altri non vedono, deve dirlo […] Il passato non è morto e sepolto, è imprevedibile come il futuro»; ma anche: «L’erba sembra soffice, ma spacca le ossa. Tutta questa insistenza dei morti. Tutti lì, sotto la terra a strapiombo. Non li vedi?». È qui evidente come le ossessioni di chi è piegato dalla malattia mentale non siano poi così diverse da quelle dell’individuo «sano», ma attentissimo; come accadeva al suo van Gogh quando, nell’allucinazione di pareti che si torcevano e s’inclinavano, nel delirio disciolto in colore, infondeva nuova vita alle cose: «Ho dipinto i prati come vulcani, i cieli come inferni stellati, e ora sono una particella in mezzo ai vortici: espio quello che merito».

La scrittura di Ercolani è abitata, frammentata in mille voci, labirintica nel suo esporre un concetto da innumerevoli prospettive; accorre in suo aiuto un corteo d’anime, chiamate in causa per scongiurare la solitudine dell’affermazione, che gli consentono sfumature sempre differenti, immagini da diversi contesti, e parole da campi semantici sempre nuovi. Il riportare alla luce un nome, una frase di un artista, un filosofo, un musicista è uno dei gesti rituali più frequenti dello scrittore, che sembra voler avere sempre accanto una figura tutelare e insieme lei medesima soccorsa, assistita, ostensa di nuovo al mondo. Così la memoria oltrepassa il singolo, e diviene flusso corale.

Così Sant’Agostino, nelle Confessioni: «Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto. Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito».

Tollerare la massa di visione e memoria è permesso, a certe menti accelerate, solo mediante la scrittura, la pittura, la musica. Il vero è sopportabile solo se riscritto in arte. La materia così restituita porta la traccia dell’artista, che imprime sé stesso come profilo a margine, e, mentre patisce e ritraccia la realtà, si dissolve in essa; l’universo va riconfigurato continuamente, pur nella sfiducia in qualsiasi struttura organica e definitiva che tenti di sistematizzarlo: «un’antica leggenda Tao racconta che […] di Vo-i, bibliotecario imperatore della Cina, scrisse e descrisse il mondo, lo catalogò in biblioteche immense, fece un lavoro perfetto e conclusivo. Poi, uscito fuori, un caco gli cadde sull’abito immacolato e al bibliotecario venne voglia di piangere».

Ma i personaggi di Ercolani non abdicano, e proseguono nel compito, afflitti da una visionarietà primordiale, aorgica, che sembra nascere da recessi della coscienza precedenti qualsiasi genesi, una memoria che ha due direzioni temporali, cosmogonica e apocalittica insieme, in osmosi continua con i territori dell’interiorità: «Nell’anno e nel giorno dell’oscurità, quando non c’erano né giorni né anni e la terra era ancora coperta d’acqua, pezzi di argilla si mescolarono a spruzzi di schiuma e apparvero isole di ossa e di sassi, immerse nel buio; ma, non appena soffiò il vento, le isole si urtarono, generarono fiumi, vapori, ombre – divennero le mie immagini del mondo».

E ugualmente lo scrittore non abdica, il suo sguardo è volto continuamente a personalità spezzate e iper percettive, che soccombono emotivamente a sé stesse, esitando in espressioni artistiche sofferte e distorte: «Lavoro, da pittore, come tutti i pittori: cercando il niente a cui intonare il mio suono: ma ciò che vedo rode tutte le cose, non vedo nulla che non sia in slancio, in volo. Il mondo mi lascia, mi svuota. Che strani colori oggi – così trasparenti, così puri. Un uccello volteggia dietro i vetri. Ma il mio orecchio, invece del morbido fruscio delle ali, sente un suono più sordo: è il pulsare del sangue, che batte contro le pareti delle arterie; lo stesso sangue irrora le sue ali e temo che la mia percezione possa, per eccesso di lucidità, provocare la sua vertiginosa caduta. Ecco l’uccello sbiancato, morto. Non ho più un grammo di pazienza – l’ho spesa tutta nell’ultimo rosso, tonnellate di rosso, che non le reggerebbe un pozzo con dentro il cadavere di un uomo».

Artisti che non vedono ma «visionano» il mondo, anche in territori vicari, come Victor Hugo che si fa pittore, «segno fulmineo e segreto della mano soggiogata dalle visioni», «macchia stregata di un regno disabitato dalla ragione», e Van Gogh, allucinato dalle deformazioni spettrali, dai colori persecutori della sua stanza di Arles, che si fa scrivano: «Vivere la stanza come una corda tesa fra dentro e fuori mi esaspera […] Ma non accadrà niente finché scrivo a te, Théo. Durante il tempo della scrittura – ne ho la certezza – sono risparmiato. La mia parola sospende ciò che sarà».

L’opera, sia essa scritta, dipinta, scolpita, composta in ottave, è il residuo di un’inquietudine, ciò che resta tra le mani dello spasimo di un’impossibile rappresentazione universale. L’artista è un’anima che passa e lascia appena un’orma di esistenza: nell’aria rimane il pulviscolo della sua dissoluzione in creazione, nel darsi come dettaglio al paesaggio impalpabile della memoria; l’opera è un lacerto, un ritaglio: «Vedere mentre la vista cancella le cose, vedere nel momento estremo, quando la nebbia ti porta via gli occhi e comincia a rubarti il respiro; […] copio il residuo di una visione. Ma quella scoria è ancora più affilata e incanta i vivi, rendendoli simili ai morti», ed è sempre inadeguata all’intento: «Aggiungere qualcosa agli occhi? Sarebbe ridicolo. Più appropriato togliere. Già, si vedrebbero le orbite. È spaventoso, ma bisogna andare avanti».

Se l’arte è comunque mutila, smembrata, impotente contro i tratti crudeli del vissuto, può però trasfondere alchimie che dissolvano i fantasmi: «Il violoncello di Étienne Pasquier aveva tre corde, i tasti del mio pianoforte si abbassavano e non tornavano più su, il mio vestito era stracciato e portavo zoccoli di legno. Ma abbiamo eseguito fino alla fine gli otto movimenti. Fino all’ultima nota. Io pensavo, suonando il violino, che, se fosse stato eseguito in quel punto esatto del campo, al posto del mio fragile quartetto, Spem alium – quell’incredibile lunghissima nota articolata da quaranta voci potenti, delicate, dolenti, sovrane – avrebbe dissolto baracche, nebbie, paludi, carnefici, reticolati, con un incantesimo smisurato e abbacinante».

I riferimenti culturali di Ercolani sono trasversali e sconfinati, la storia dell’arte e della musica, la poesia, la fotografia, l’architettura, ogni anfratto di letteratura e riflessione filosofica, i testi sacri, l’art brut. L’insieme annichilisce, in una sensazione di simultanea presenza alla mente di tutto ciò che esiste e che è stato ideato dall’uomo, in una inesausta gestazione di significati, mai esprimibili, ma da scontare, per il peccato originale di non essere un tutt’uno con le cose, ma d’esserne separati, e percepirle. Se la coscienza vive tutto questo in modo spasmodico e incombente, da tale profluvio è necessario difendersi creando, interpretando, scrivendo: come il danzatore che, in rotazione, non cade. Marco è il discorso ininterrotto, è l’Austerlitz di Sebald, il Volo del calabrone di Korsakov; è la soglia del finito sull’incolmabile, les sources de la Vivonne.

La scrittura di Ercolani può apparire affabulatoria, mendace nell’interpolazione continua del possibile tra le trame del vero ma, se ascoltata pienamente, si mostra per ciò che è: la non negazione di possibili verità parallele, o perpendicolari, provenienti da altri mondi: «Come diceva il folle Tang-tzu, il mondo è visibile solo a occhi completamente chiusi. Allora, e solo allora, puoi ascoltare la notte che è dentro le cose, come è sempre stata»; in intimità con spiriti e presenze: «Ma noi ce ne intendiamo di fantasmi. Noi, poeti ostriche che non si accontentano del piccolo fondale in cui sono sepolti»; in uno stato sonnambolico di presago discernimento: «Quando ti sveglierai, saprai che fare arte è come imitare il vento. A volte basta pochissimo. Una stoffa imbevuta di pioggia, uno spostamento di sabbia sul muro, della polvere apparsa sulla tela. Il creatore deve vivere al minimo, guardiano silenzioso degli elementi», che è la vera fonte di ispirazione: «Lontano dalla vista in cui credevi, vicino al segreto che intuivi»; dove il gesto ideativo ha valore assoluto, e respira di sé stesso: «Un’orma è un segno nel bianco. Sia che appartenga a una lepre in fuga o al piede di un monaco, non è giudicabile».

Si potrebbe continuare interminabilmente a riflettere di Ercolani, su questo suo sapere enciclopedico che insorge nella percezione, riportando ragionamenti e citazioni di brani, perché è un autore interminabile. Ma forse è lui stesso a fornirci un piccolo esorcismo, un filo di Arianna che ci aiuterà a non smarrirci nel dedalo minoico dei suoi corridoi e stanze cerebrali, un assioma esposto a proposito di Leopardi e del suo Zibaldone: «Si va avanti per onde di pensiero, aperture, sequenze, richiami musicali. La visione di Leopardi non prescrive limiti, invita all’erranza, allo sperdimento […] germinazione naturale del pensiero che permette di uscire dalla triste ragionevolezza e dalla noia uniforme delle filosofie analitiche […] Non “prosa poetica” ma “anima” della prosa, lunare fantasticheria, musica-improvvisazione» che resta «sempre sospesa, lungo e mai concluso journal».

Ma, se il più grande richiamo apotropaico attraverso i millenni fu il sistro, dal suono lieve come un soffio, allora il più grande esorcismo contro l’inesauribilità sarà la disciplina del poco, del dilatato silenzio; la parola distillata, che plana in purezza nel significato attento.

«Chi ha un cuore, getti via gli occhi e dopo vedrà», sostiene il mistico sūfī Al-Hallāj, ma anche: «La lingua è la rovina dei cuori silenziosi», suggerendo che, a volte, ciò che non si reperisce in implacabili analisi, si può manifestare nella quiete che nulla domanda. Così, ancora, accade nel sacro: «Chi cerca Dio, siede nell’ombra della propria espiazione; chi è cercato da Dio, nell’ombra della propria innocenza» suggerendo che una innocua e ispirata passività, orientata all’ascolto, possa divenire la chiave.

Quello che appare chiaro, d’un tratto, è che anche qui, come in altri autori monumentali, nei testi più arcani, nei lavori più indifesi e trasognati, vi sia la spiegazione di tutto. Come in un’infanzia non emendata, dove la parola esce diretta, affilata, direttamente dagli anfratti del cuore. Ciò che accadeva al Victor Hugo che si faceva pittore sembra accadere a Ercolani quando si fa poeta, consapevole che la poesia sia sorella minore nella sua ispirazione letteraria. Ma, si sa, è dove si è più indifesi che arriva l’annuncio: «Infatti hai tenuto nascoste queste verità ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Matteo 11, 25-27).

E davvero c’è tutto Ercolani, seppure più accorto e sospeso, più disarmato e intenso, nella sua poesia; tra i versi, un eremo di misura e lealtà; nell’oggetto nitido e spoglio, raccolto in sé, come sempre, i grandi eventi silenziosi.

Nel suo canto lirico c’è ancora il continuo gesto di vertigine, nell’oblata pena del non delimitarsi: «Sei lì con i registri degli scomparsi, / i quaderni dei morti. / Sogni le loro vite, sogni superflui: / la lunga fessura nell’idolo, / la testa bucata in fondo alla sala»; e ancora: «Guardami: / gli scomparsi hanno un numero e un nome. / Vedo immagini scorticate / ombre in mezzo alle mani. / Lungo accordo la materia incendiata – / tronco lasciato nero / manifesti scollati / città vuote di voci»;

c’è l’esiziale tensione alla comprensione, per la quale le vie sono d’ombra e di ghiaccio, eterne partenze in specchi d’acqua oscurati da dominanti rilievi, da scorate inerzie, da luttuosi presagi: «Questa notte nasce il vento / questa notte nasce il vento / ripeto all’amico che tace per paura, / le mani supine, riverse nella rete»;

c’è il dubbio tormentoso della creatura-isola di poter lasciare una traccia: «I nostri passi, cercando la terra, trovano il vento. / Io socchiudo gli occhi, stanco di vedere pietre. / Stringo un bicchiere vuoto / e ascolto le voci dei ragazzi / per non credere che l’uomo / è un disegno staccato dal muro»;

c’è il suo lavoro, lunghissimo e tentacolare negli anni, che indaga arte e follia, il suo interpolarsi alle anime trapassate nella scrittura apocrifa; la fatica delle tante rotte percorse, in un reticolo spazio-temporale smagliato, in un tumulo di voci assordanti, di cui scrittore e lettore divengono il riflesso: «Vedremo il centro chiaro di tutte le ombre / il muro abbagliato / vivi curvi sui morti / penseremo l’oltre / come un’acqua senza vaso / una corsa liberi / dal ferro delle gabbie dalla calce dei muri dal sangue versato / vedremo i lampi sulle macerie / torneremo / nelle ferite altrui /come incurabili specchi»;

c’è la tenera affezione per gli artisti non allineati, le persone al margine, le opere minori: «Devi essere musicale. Camminare con loro, / giovani, sonnambuli, leggeri, / come se il sole fosse fermo. / Hanno vestiti che perdono luce. Le finestre tornano vetri / spaccati. E quel suono indecifrabile, come di risacca. / Devi essere musicale, trascrivere con giustizia. / Fuggire l’ansia del foglio. / Orchestrare con strumenti che spariranno;

c’è la salvezza della scrittura: «Scriviamo lunghe lettere / mentre, nel giardino, abbattono i platani. / Non guardiamo le foglie non ascoltiamo / il rumore dei rami rotti dalla caduta. / Le parole che scriviamo / salvino la nostra vista dallo scempio delle scuri. / Il giardino non è ancora vuoto / se parliamo di un platano illuminato dal vento»; e ancora: «Se scrivo, nel fango torna un suono di mare. / Riprendo, la penna sul legno, / la terra oltre le sbarre. / Una frase dopo l’altra / frana altra terra, / non appare mai / il cielo. / Sottile la carta, si torce, / esige odori di luna, di mare. / Provo a tastarla / a sprigionarne luce»;

c’è il disarmo in cui il ritmo rallenta, l’erudizione posa inerme, pacificata. L’uomo appare ora esile e sguarnito, di fronte a una natura magica, significante, che respira come il fiato del cosmo, ed è nudo e solo, radioso al cospetto della propria vulnerabilità: all’ombra della rupe, smarrito, riluce, e non chiama a raccolta voci impetuose né tenta significati. Tra le tempie, il suono inesausto di chi passò prima di lui, tracciando archi di umano senza concludere il cerchio; il suo dono, dichiararsi imperfetto e inconcluso fin dal primordio, per non farsi sconfiggere dalla cesura di alcun termine, e per imprimere, tramite l’inconcluso, l’inesauribilità dell’eterno.

«Guarda pianissimo. / C’è troppo rumore negli sguardi. / Osserva in silenzio. / Obbedisci / alla tua vertigine, cerca i ritmi di un cielo. […] Guarda più piano, non ferire nulla. / Le cose vanno lasciate come prima di te. / Ma con te, dopo di te, un bisbiglio / sotterraneo, una promessa».

È la parola qui, che viene incontro lentamente: cauta, fasciata nei suoi silenzi, ci ricorda che la poesia può essere, anche per le anime più tormentate, per le menti più erudite, il momento di posare, quel modo sensitivo e tenero di esserci, in cui s’impara ad avvicinarsi piano alle cose piccole, e ad ascoltarle respirare.

I brani citati sono tratti dai testi:

Marco Ercolani, Le forme dell’aria, Gattomerlino, 2021 Marco Ercolani, Galassie parallele, il canneto editore, 2019 Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, traduzione di J. Leskien e M. Ranchetti, Feltrinelli, 2014 Lorenzo Pittaluga, Sono la foce e la sorgente, antologia poetica 1984-1995, Italic Pequod, 2015 Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Sento le voci, La vita felice, 2009 Marco Ercolani, Turno di guardia, Il canneto editore, 2011 Marco Ercolani, Il diritto di essere opachi, nota critica di Gabriela Fantato, La vita felice, 2010 Marco Ercolani, Preferisco sparire. Dialoghi con Robert Walser (1954-1956), Robin, 2014 Marco Ercolani, Da quale rupe riflessa (2017-2021), silloge inedita, finalista al Premio Montano 2021 Marco Ercolani, Nel fermo centro di polvere, nota critica di Antonio Devicienti, Il Leggio, 2018