DIRTY METAL - La Nuova Ecologia

2022-08-27 03:11:01 By : Mr. Kison Wang

Si utilizzano dappertutto. Nelle batterie per auto ibride, negli schermi televisivi, negli smartphone. Fanno da perno per lo sviluppo delle energie rinnovabili, ma sono fondamentali anche per l’industria bellica. Dalle turbine eoliche ai missili Cruise, le terre rare rappresentano il trampolino tecnologico verso il futuro in un numero quasi infinito di settori. Uno “status” che insieme ad altri minerali strategici, come il coltan o il cobalto, le mette al centro di scenari globali in cui si decidono equilibri di potere e fortune economiche. Anche a costo di vere e proprie devastazioni ambientali.

Schiacciato, finora, dal monopolio cinese, il mercato mondiale delle terre rare ha una nuova frontiera: l’Africa. Burundi, Niger, Costa d’Avorio, dalla Repubblica democratica del Congo, Tanzania sono soltanto alcuni dei paesi in cui le industrie minerarie hanno aperto la “caccia grossa” ai minerali indispensabili per le nuove tecnologie, finora concentrata soprattutto in Sudafrica. E forse non è un caso che sempre la Cina figuri, nelle cronache di questi scenari da “risiko”, come uno dei protagonisti nell’accaparramento delle aree più promettenti per le nuove miniere.

La prima pietra è stata estratta nel 1787 in una cava di Ytterby, un villaggio dell’arcipelago di Stoccolma. Il chimico militare svedese Carl Axel Ahrrenius, primo a individuare questo minerale nero, decise di chiamarlo itterbite. Qualche anno dopo si scoprì che l’itterbite era in realtà un mix di tanti ossidi di elementi mai analizzati, cui il professore finlandese Johan Gadolin diede il nome di “terre rare”. Nei decenni sono stati isolati 17 elementi di quel miscuglio, dal cerio all’ittrio. Per ultimo, nel 1907, venne separato il lutezio.

Il nome “terre rare” tuttavia, non è completamente calzante. Quasi tutti gli elementi che appartengono a questa categoria sono abbastanza comuni. Molti sono più abbondanti dell’oro, dell’argento e del platino, in alcuni casi anche del rame e del piombo. Il problema è la bassa concentrazione dei depositi: meno del 5% del materiale estratto di norma è composto da terre rare.

Questo fa lievitare i costi di recupero: il disprosio si vende a 4.500 dollari al chilo, l’ittrio a 8.000, il terbio a 18.000 e l’europio a 200.000. Inoltre, in un mondo in cui i diritti sono distribuiti in maniera estremamente diseguale, estrarre terre rare diventa redditizio solo in quei paesi che possono sostenere la produzione con sussidi pubblici o comprimere impunemente i costi di manodopera.

Non è un caso, con queste premesse, che la Cina oggi produca l’81% delle terre rare (105.000 tonnellate annue) estratte al mondo. E che dal 1985 al 1995 abbia letteralmente polverizzato la concorrenza globale, a cominciare dagli Stati Uniti. Il “dragone” è avvantaggiato dal fatto di possedere le più grandi riserve planetarie di questi minerali (44 milioni di tonnellate, circa il 37% del totale), quasi tutte concentrate nell’immenso distretto minerario di Bayan Obo, in Mongolia. Numeri che valgono il doppio del Brasile (che però produce appena 2.000 tonnellate annue), del Vietnam e della Russia (terzo produttore con 3.000 tonnellate), cinque volte più del Sudafrica, sei più dell’India, quindici più dell’Australia (secondo produttore con 20.000 tonnellate) e oltre quaranta volte più degli Usa.

«La Cina ha affidato alle sue industrie di stato l’estrazione e la lavorazione delle terre rare – spiega Francesca Manenti, analista Asia e Pacifico del Centro studi internazionali (Cesi) – mentre delle lavorazioni secondarie e della commercializzazione si occupano aziende private». I cinesi hanno ricordato a tutti il loro strapotere nel 2010, quando il governo ha deciso di ridurre le quote di esportazione. Il costo delle terre rare è cresciuto di dieci volte, mandando in sofferenza tutti gli altri produttori. Dopo cinque anni di dispute presso l’Organizzazione mondiale del commercio, la Cina ha dovuto togliere le restrizioni, ma nel frattempo la gran parte delle cave in Occidente aveva chiuso i battenti.

In questo regime di monopolio, Pechino utilizza le terre rare come “manganello” geopolitico per ridurre a più miti consigli quei Paesi con cui ha controversie economiche. «Non è escluso che questi minerali diventino una delle armi utilizzate dai cinesi nel conflitto commerciale con gli Stati Uniti di Trump», prevede Manenti. Un regime da cui tutti cercano di smarcarsi, per differenziare gli approvvigionamenti. Il Giappone sta provando a uscire dall’angolo grazie a una nuova scoperta: ad aprile i ricercatori dell’università di Tokyo e della Japan agency for marine-earth science and technology hanno rivelato, su Scientific reports, l’esistenza di circa 16 milioni di tonnellate di terre rare sotto 2.500 km quadrati di fondale marino intorno all’isola di Minami-Torishima, a 6.4 km di profondità. Secondo gli esperti, il Giappone potrebbe tirare fuori dall’oceano ittrio sufficiente a soddisfare la domanda attuale per 780 anni, europio per 620 anni, terbio per 420 e disprosio per 730.

Peccato che estrarre questi minerali dal mare sia enormemente costoso. Così,  per “risolvere” il problema, un consorzio di aziende e ricercatori sostenuti dal governo sta preparando dei test di fattibilità. L’idea è mandare degli idrocicloni nelle profondità oceaniche: una sorta di maxi aspirapolveri che utilizzano la forza centrifuga per depositare sulle pareti esterne di un filtro le particelle più pesanti, accumulandole in un serbatoio ed espellendo sabbia e acqua di risulta. La separazione in situ fra terre rare e fondale potrebbe abbassare i costi di estrazione, inviando sulle navi in superficie materiale più “pulito”. Nel frattempo, il governo giapponese spera di riuscire a comprare, entro la fine di quest’anno, il 60% delle terre rare fuori dalla Cina, anche grazie agli investimenti con cui le più grandi aziende nipponiche del settore stanno sviluppando piani estrattivi in Australia, India e Kazakistan.

Come accennato, non esiste prodotto tecnologico che non si componga anche di qualcuno di questi minerali dalle importanti proprietà magnetiche, elettriche e ottiche. Li troviamo nelle automobili, negli smartphone, nei motori elettrici di qualunque tipo, nei superconduttori, nei magneti e nelle fibre ottiche, nelle applicazioni militari e nell’industria aerospaziale. Anche la produzione di energia pulita e di auto elettriche deve passare per questa strettoia.  «Una turbina eolica da 6 MW contiene circa 3 tonnellate di una lega di neodimio ferro e boro, pari a circa il 30% del suo peso – spiega Pier Luigi Franceschini, direttore generale della Eit raw materials, un’associazione di 120 atenei e centri di ricerca europei impegnati nello studio di approvvigionamenti sostenibili di materie prime – Per altre applicazioni le concentrazioni sono più basse: ad esempio in un cellulare parliamo di circa un grammo di terre rare». La filiera, spiega Franceschini, è abbastanza complessa e il mercato è piuttosto chiuso e poco trasparente. «I passi successivi alla miniera sono macinazione e arricchimento, produzione di concentrati di ossidi di terre rare con processi idrometallurgici, separazione e purificazione degli ossidi, raffinazione finale per la specifica applicazione». E la Cina è l’unico Paese che ad oggi ha sviluppato l’intera catena del valore, dalla miniera al prodotto tecnologico.

Come per molti altri minerali alla base della nostra vita quotidiana, l’estrazione di terre rare lascia dietro di sé una scia di devastazioni ambientali e violazioni dei diritti umani. Nelle centinaia di miniere illegali della Cina rurale, aziende senza scrupoli inquinano le falde acquifere nei pressi di piccoli villaggi. Non sono molte le notizie che filtrano da queste province sperdute, complici le connivenze fra industria, mafie e autorità locali: nel 2008 Radio Free Asia raccoglieva la denuncia di uno dei 600 abitanti del villaggio di Shangmankeng, presso la città di Heyuan. Avevano perso tutto il raccolto di riso per colpa di una miniera illegale di terre rare, che scaricava sedimenti zeppi di uranio nell’unico bacino idrico della zona. Un reportage del Guardian, nel 2014, descriveva numerose altre piccole apocalissi in analoghi villaggi della Mongolia.

Se le notizie sono poche e incerte, i numeri invece non mancano. Secondo la Società cinese delle terre rare, ogni tonnellata estratta comporta l’emissione di 10-12.000 metri cubi di polveri, fra gas di scarico, acido fluoridrico, biossido di zolfo e acido solforico. A ciò si aggiungono 75 metri cubi di acque reflue e una tonnellata di residui radioattivi. Simbolo di questo cataclisma ecologico è il cosiddetto “lago tossico di Baotou”, 11 km quadrati di fanghi radioattivi, continuamente alimentato dalle raffinerie circostanti con 10 milioni di tonnellate di acque reflue all’anno, in gran parte radioattive e sostanzialmente non trattate. Nel suo reportage del 2015, il reporter della Bbc Tim Maughan lo ha definito “l’inferno sulla terra”.

La storia di tutti gli oggetti tecnici che spostano ogni giorno più avanti la frontiera dello sviluppo comincia sulle rive di questo disastro ambientale, prosegue nelle misere giornate degli operai impiegati nelle raffinerie e si conclude nei nostri smartphone e nelle auto elettriche. «Il processo è potenzialmente molto inquinante – spiega Claudia Brunori, responsabile della divisione Uso efficiente delle risorse e chiusura dei cicli dell’Enea – perché richiede l’uso di solventi organici e perché i minerali di origine spesso contengono elementi radioattivi. La rivoluzione verde attraverso l’impiego delle terre rare ha un effetto collaterale ai limiti del paradosso: per costruire tecnologie ecosostenibili è necessario impiegare risorse naturali la cui produzione è altamente inquinante. Il rischio derivante dall’utilizzo di questi minerali e le legislazioni ambientali restrittive hanno reso i costi per i Paesi occidentali insostenibili».                                                             

Come ridurre gli impatti? Se lo sono chiesti anche sei ricercatori tedeschi, che alla IX Conferenza sull’energia applicata dell’agosto 2017 hanno presentato un’indagine sulla social footprint dei magneti permanenti utilizzati nelle turbine eoliche. Questi componenti integrano terre rare e derivano da un processo industriale che presenta forti rischi sociali, soprattutto in Cina e Malesia. Secondo gli esperti, «le istituzioni devono sviluppare strategie per ridurre questi rischi e proteggere l’ambiente, evitando la CO2 e altre emissioni e allo stesso tempo evitando di mettere in pericolo le fondamenta sociali della società». Molto più facile a dirsi che a farsi. Qualcuno inizia a ragionare sul riciclo, ma a oggi appena l’1% delle terre rare ha una seconda vita. «L’industria del riciclo in Europa è ostacolata anche dal fatto che le imprese non le utilizzano direttamente ma assemblano semilavorati prodotti all’estero – spiega sempre Brunori – e le terre rare riciclate non troverebbero un mercato capace di assorbirle, obbligando di fatto chi le produrrebbe all’esportazione».

Problemi reali con cui si sta misurando, ad esempio, Relight, un’azienda milanese impegnata nel riciclo di prodotti elettronici e che ha sviluppato un processo pilota per estrarre terre rare dalle lampade a fluorescenza. I prezzi di vendita del prodotto recuperato sono però ancora troppo alti. Gli investimenti si concentrano così nel settore dei magneti, dove le economie di scala lo consentono, ma la domanda di terre rare cresce molto più in fretta. Come sempre, il destino del recupero, del riciclo e dello sviluppo di alternative è in mano alla politica.

© La Nuova Ecologia 2020 lanuovaecologia.it è l’edizione digitale del mensile cartaceo la Nuova Ecologia (art. 3 c. 2 Decreto legge 18 maggio 2012 n. 63 convertito con modificazioni nella legge 16 luglio 2012 n. 103), "Nuova Ecologia (www.lanuovaecologia.it) è un periodico che ha percepito (già legge 7 agosto 1990 n. 250) e percepisce unicamente i contributi pubblici all’editoria (legge 26 ottobre 2016 n. 198, d.lvo 15 maggio 2017 n. 70) registrata al Registro della Stampa del Tribunale di Roma n. 543/1988 - dir. resp.: Francesco Loiacono - Editoriale la Nuova Ecologia soc. coop. via Salaria n. 403 Roma - n. ROC 3648 P.Iva 04937721001

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