I libri di NRW: Madame La Dostoevskaja - Nuoveradici.world

2022-08-27 03:08:35 By : Mr. Zhixue Wang

Da Kiev a Mosca. Sembra un viaggio al contrario, di questi tempi in cui Mosca scrive la storia più nera coi cingoli dei carri armati che calpestano asfalto e stritolano zolle. Ma l’amore, si sa, non ha confini. Ed Elephantina, donna ucraina assai innamorata, non ci pensa un attimo a lasciare Kiev per approdare a Mosca. Il suo è molto più che un viaggio. È una ripartenza identitaria, che la porta a diventare la Dostoevskaja, un titolo non da tutti nel Paese che ha dato i natali a Fëdor Michajlovič Dostoevskij, il più grande scrittore e pensatore russo insieme a Lev Nikolàevič Tolstòj. L’epopea di Elephantina è il cuore del romanzo di Julia Kissina Una storia d’amore e di poesia a Mosca. Ma è pure lo specchio fantastico della vita di questa scrittrice nata nel 1966 a Kiev da una famiglia ebrea che ha studiato scrittura drammatica presso l’Istituto di cinematografia Gerasimov di Mosca. Rifugiata politica, Julia Kissina è poi emigrata in Germania nel 1990, dove si è laureata all’Accademia di Belle Arti di Monaco. Ma le radici non si dimenticano, come fa dire ad Elephantina quando, già a Mosca, le chiedono di raccontare di Kiev. Sono parole solari, di una città ancora legata all’impero sovietico e non ancora stuprata dall’esercito di Vladimir Putin: «Kiev è la madre di tutte le città russe, la più antica città kazara, la Parigi dell’Ucraina. Nessuno può negare che Kiev è la città più bella al mondo, più di Parigi, di Roma, più bella di una festa, più bella di un sogno». E allora viva la Kiev di Elephantina, che all’inizio degli anni ’80, studentessa dell’istituto d’arte di Kiev, si innamora perdutamente di un poeta avanguardista soprannominato «il nuovo Achmatova» e lo segue a Mosca, una città troppo grande e cosmopolita per una ragazza di provincia come lei. Tra eventi artistici proibiti, mandati di comparizione del KGB e incontri con musicisti e intellettuali d’ogni sorta – tra cui l’urlante Allen Ginsberg – l’ingenua Elefantina diventa donna nel decennio che ha cambiato – per ora – il destino del mondo, fino a diventare Madame la Dostoevskaja. Fabio Poletti Julia Kissina Madame La Dostoevskaja Una storia d’amore e poesia a Mosca traduzione dal tedesco di Luisa Giannandrea 2020 Scritturapura 180 pagine 18 euro

Per gentile concessione dell’autrice Julia Kissina e dell’editore Scritturapura pubblichiamo un estratto dal libro Madame la Dostoevskaja. Il giorno dopo trovai l’odore e la luce di una nuova vita. Guardai tra la folla. Mi vennero addosso una stazione di ghisa e i suoi tanti volti sconosciuti. Uomini che gridavano, donne con i fazzoletti in testa, il rumore metallico dei carrelli dei bagagli. Sul binario, quella mattina, il mio grasso amante non c’era. C’è stato forse un errore? Mosca odorava di apparato statale. In centro c’erano i pentagoni e in mezzo ai pentagoni le pasticcerie. Carri armati e cioccolatini, torte e missili! Elephantina, sei ancora in te? Il cielo granitico, con le sue nubi scolpite in rilievo, potrebbe caderti sulla testa. Lassù, sopra quelle nubi, si stanno svolgendo riunioni, incontri e angeliche discussioni. E la mattina, il profeta Elia nel suo carro di fuoco, sale in cielo direttamente dal Cremlino per difenderci dall’America e dalla mancanza di spiritualità. Le cupole delle chiese odoravano di cipolle. Quaggiù sulla terra ci sono i binari, le redazioni di giornali, gli uffici per la casa, le anagrafi, le lauree in ingegneria meccanica e i motori a scoppio. E lo smog che viene dall’Occidente, perché in russo non esiste la parola “smog”, ma lo smog c’è. E i panni lavati, i cumuli “di cenere di sigarette, i funzionari e gli autisti. “Elephantina, sei una vera idiota”, mi diceva Mosca. E io alla città rispondevo con una linguaccia. E poi mi dicevo: aspetta che ti faccio vedere io! Farò cose che non si sono mai viste e lascerò tutti senza fiato. Smetto con la poesia e mi inginocchio al teatro. Gli spettatori volteggeranno come su altalene sopra la scena e scivoleranno in una galleria ultraterrena. Proprio come quella sera in cui per la prima volta, durante uno spettacolo, piovve davvero sul palcoscenico e gli spettatori in sala, con gli occhi rivolti al soffitto, aprivano i neri ombrelli. Sì, quel giorno io ero in platea e respiravo l’odore dell’ozono che saliva dal palco. Improvvisamente sbucò timido un cervo dal bosco. E quando anche un pipistrello, svegliato dal suono dell’orchestra, dalla galleria volò giù sul palcoscenico, gli spettatori svennero, qualcuno persino morì. Sul teatro circolavano un sacco di storie: di cavalli e carri armati sul palco, di assassini e pubbliche autopsie! Di spogliarelli – persino di mummie egizie spogliate dalle bende – con ingresso vietato alle donne! Ma il mio desiderio più grande era portare in teatro incendi e terremoti; e attori che, entrando in scena, dicessero in coro: voi ci fate tutti schifo! Il nome dell’istituto nel quale volevo studiare scenografia era maestoso, elegante e audace: Scuola Studio di Teatro d’Arte! Senza accorgermene mi ritrovai in mezzo a una monumentale discarica nel cuore di Sodoma. Nei primi tempi mi sistemai da Marisemjonna, la sorella di mio padre, e lei si appropriò completamente di me. Si era messa in testa, per prima cosa, di farmi conoscere Mosca e, poi, di trovarmi una sistemazione quanto più vicina al regime, il che voleva dire presso una “signora molto per bene”. “A essere sincera non mi importava. Qualsiasi cosa fosse accaduta, ci sarebbero state comunque la pioggia, la grandine e una burrasca di neve, le “tre sorelle” sarebbero venute fuori dalle trincee e avrebbero sparato con i mitra sui “giardini di ciliegi”. Io, una cosina magra con mani esili e insignificanti, fui portata dalla suddetta signora per bene. Faceva uno strano lavoro: classificatore di fasce retributive. L’appartamento era uguale alla scenografia di una piéce di Ostrowski: centrini, porcellane, tovagliette fiorate, in una parola, l’orrore matrioska al completo. Quando entrammo nel suo “soggiorno per bene”, Olga Leopoldnovna stava facendo un cruciverba. Per me una persona che fa cruciverba vale quanto l’ultimo bacillo rimasto in vita sul cadavere dell’umanità. “Salve Marrusenka, è questa allora la sua nipotina di Kiev? Ma è tutta pelle e ossa! Povera bambina! Ma a Kiev non avete il salame? Ma guardi le sue braccia – sono due stuzzicadenti! E così pallida! Sembra una tenia! Marisemjonna, sua nipote non sta bene, ha bisogno di latte!” “Latte?” “Allora, bambina mia, per tua informazione: fai molta attenzione al bagno! Lo scarico non funziona, devi usare il secchio”. “Vai al diavolo Olga Leopoldovna, e che nel cesso possano annegarci tutte le tue “enigmatiche parole crociate del cazzo e scomparire”. “Alle nove e mezza devi essere a casa. Dopo non ti faccio entrare e dovrai dormire per strada”. “Infilati quell’attizzatoio nel culo, siediti su una padella ardente e poi mettiti a strimpellare il valzer delle pulci sul quel piano scordato!” E tutto a un tratto cominciò a suonare un’orchestra, la radio si mise a gracchiare, le ballerine di porcellana sulla credenza iniziarono a girare e io corsi via da quell’appartamento. In via Gorki c’era il sole e tanta polvere. Una fila interminabile di macchine mi scorreva davanti. Bandiere. Finestre. Tutta la letteratura della madre patria era immersa nell’odore di benzina, tutto era pieno di senso, avvelenato dal senso, contaminato dal senso e dal doppio senso. I miei amati filobus che portavano diritto alla Piazza Rossa! E c’ero io, una ragazza testarda, che si rifiutava di andare ad abitare con una signora per bene! “Ti ho trovato una stanza bellissima, proprio in centro. Una donna molto intelligente, un’ex attrice!” Marisemjonna non riusciva a darsi pace. Stavolta, per andare nella dimora dell’ex attrice, attraversammo tutta la Terza Roma dei poveri. Inga Borisovna era una vecchietta minuta, simile a un acino di uva passa. Aveva “Aveva una sola gamba e un visino da scimmia, avvizzito come quello di un vecchio decrepito. Ma quanto meno non mi passò al vaglio come fossi merce in vendita. In realtà, passò tutto il tempo a fissare un angolo, come se ci fosse seduto qualcuno, una persona invisibile con cui fare conversazione. Si mise a camminare con una slitta metallica che Marisemjonna chiamava “telaio”, come quelli che ci sono nelle fabbriche di tessuti. © Suhrkamp Verlag AG, Berlin © 2020 Scritturapura Casa Editrice Soc. Coop.

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