"Gente indipendente" di Halldór Laxness: la vita è un’isola smarrita nell’oceano - OUBLIETTE MAGAZINE

2022-08-13 08:42:16 By : Ms. Null Yi

Libro I – Libro sconfinato. L’Islanda è un’isola, che è la forma di territorio più confinato che ci sia, come lo è un lago. Eppure anche una piccola isola, come Capri, o un laghetto alpino, come quello di Carezza, appaiono a volte sospesi in un Nulla illimitato.

“La storia dei secoli in questa valle è la storia di un uomo indipendente che lotta a mani nude contro uno spettro che cambia costantemente nome. A volte lo spettro è un debito semidivino che maledice la sua terra…”.

Quando la vita ti trascina in un torrente impetuoso o si arena in una malsana palude, cerchi la causa che ha determinato il tuo destino e talvolta riconosci una tua colpa, un gesto sacrilego che hai compiuto, un’omissione fortemente voluta, oppure neghi ogni addebito e invochi un’innocenza che ti fa dire che la vita è questa e che la piega è degli eventi, non di chi li subisce. Sta di fatto che “l’uomo che si stabilisce ad Albogastadir sulla Brughiera un secolo e mezzo dopo che la fattoria è stata distrutta per l’ultima volta”, nega il suo omaggio alla strega che ha maledetto il territorio, e “inveisce rabbioso: Dannato il sasso che riceverai mai da me, vecchia bagascia, e si rifiuta di lanciarle una pietra.” – com’è secolare e religiosa consuetudine. Quest’uomo tutto è, ma non è consueto, né religioso e non teme affatto lo spirito di Kolumkilli.

Nel romanzo di Laxness non esistono le virgolette, poiché il discorso è di uno solo, un io narrante che è composto da tutti gli io narranti che dicono le cose, senza porsi limiti. In questo senso, Gente indipendente è un libro illimitato e privo di confini.

“Il sole splende sulle criniere altere di cavalli remoti e nel vento si ode lo scalpitio di zoccoli da tempo trascorsi: sono i cavalli del passato su sentieri lungo il fiume, secolo dopo secolo, generazione dopo generazione, e la strada è tuttora percorsa – ed ecco che ora la percorre lui, col suo cane, intrepido, l’ultimo proprietario terriero, il colonizzatore d’Islanda di trentesima generazione.” – the latest, direbbero gli inglesi, non the last: il più recente, non l’ultimo. Ignoro il termine islandese utilizzato dall’autore. La Storia, nel suo evolversi, riporta frequenti delle fratture, a volte scomposte, e non cessa mai di trasformarsi in qualcos’altro.

“… io l’ho pagata ben più cara la mia indipendenza: diciotto anni sotto l’ufficiale del distretto di…”

Il protagonista del romanzo è “Bjartur di Sumarhús”, che “cammina sul suo prato, ispeziona le rovine coperte d’erba, controlla le pietre nei muri dello stabbio, demolisce e ricostruisce nella sua immaginazione lo stesso tipo di edificio in cui è nato e cresciuto, a est oltre la brughiera.” Io ancor di più, ma solo come numero di anni di prigionia, circa quarantuno. Ora sono stato graziato, ringraziando non dio chi, ma chissà chi, sicuramente degli empi che hanno tentato di comprare la mia libertà, accattivandosi la mia simpatia: missione fallita. Ma è anche grazie a loro che, leggendo il libro e che ho avuto il tempo di meditare sul termine stabbio, a cui non pensavo da anni: il recinto in cui sono lasciati liberi gli armenti perché prendano aria, mangino erba e caghino felici: letame deriva da laetus, lieto da letame. Stablîres nel mio dialetto arşân è impiastricciarsi, stablîres la ghégna: truccarsi, che significa riempirsi di sostanze che un po’ sporcano il viso, quando non l’abbelliscono. Una faccia acqua e sapone significa non truccata. Chiedo al mio amico Savino, un montanaro che tanto sa del dialetto delle nostre parti, il quale subito mi chiede: Sono troppo vecchio se ricordo una usanza dettata dalla necessità? E poi mi spiega: Quando non c’era abbastanza spazio per reperire un angolo per le pecore se ne costruiva uno di legno fuori, ma appoggiato al muro della stalla. Lo si faceva con pali e bastoni intrecciati fino a realizzare un locale abbastanza sicuro. Dopo le pareti di staccionata venivano coibentate, stabulîdi con sterco di mucca. La soluzione produceva una protezione, un isolamento contro il freddo. Da Stàbulum = prodotto della stalla, deriva stabulir = applicare lo stallatico, poi, in seguito, applicare l’intonaco = stablîr. Stabile e derivati invece derivano da Stare = stare in piedi, essere presente. E poi finisce di strabiliarmi: forse da Soraggio avrai visto la cosiddetta casa di Pietro. C’è ancora e si trova lungo l’antica strada Castellaro-Gombio, nella località detta Le Prade, dove la strada comincia a scendere verso il Mulino Zannoni. Il Pietro in questione aveva dovuto abbandonare la casa paterna perché ereditata da un fratello che non gli ha permesso di terminare la nuova casa prima di lasciare la vecchia. Per alcuni mesi abitò in una capanna, stablîda cun al rût, lui, moglie e figli. Che poi quel trattamento, una volta seccato, non puzzava più e proteggeva bene. Se qualcuno mi chiedesse se tutto questo c’entri col romanzo e se Savino sia uno dei personaggi del romanzo di Laxness, la mia risposta è sì per entrambe. Qualcosa di loro mi è familiare, qualcuno mi è forse zio di non so quale grado.

Lui, Bjartur di Sumarhaus ha un bel rapporto con la sua cagna, che “gli corre intorno in cerchio abbaiando frivola, poi si accuccia col muso a terra…” – dopo cui le dice che suo “padre a ottant’anni non era ancora riuscito a restituire le duecento corone del prestito per l’invalidità che il distretto gli aveva anticipato da giovane. La cagna l’osserva scettica per un po’ come se non gli credesse sul serio…” E lui le fa, ancora: “No, non spero che tu capisca, dice l’uomo. Che disgraziati sono, i cani, e ancora più disgraziati siamo noi umani…” Bjartur pareva a volte “arrabbiato, mentre era solo invaso dallo spirito della modernità e determinato a essere un uomo libero sulla sua terra, e indipendente come le altre generazioni che qui si erano stabilite prima di lui.” – chissà qual è la differenza tra libertà e indipendenza. So solo che la prima ha la stessa origine di libidine e c’invita perciò a fare quel che ci piace, da soli o insieme all’Altro. La seconda ha a che fare con l’organizzazione sociale, mi sa, e con l’economia.

Non so quanto il mio amico Savino, né il suo collega più anziano, Laxness, abbiano cercato di essere liberi o indipendenti nella loro vita, secondo me sì anche se non conosco la loro biografia. Questo fatto, che ricorre nel titolo e nella vita di ognuno è un motivo ricorrente nel romanzo.

Il vecchio Thórdur di Nidurkot aveva vari figli: “due figli annegarono in un lontano oceano, un figlio e una figlia sparirono in un paese ancora più lontano, l’America, che è molto più lontano della morte. Ma forse non c’è distanza più grande di quella che separa una famiglia povera dello stesso paese: due figli si erano sposate in villaggi della costa, e una di loro era adesso una vedova con una schiera di figli, mentre l’altra, che aveva sposato un tisico, viveva a carico della comunità – cos’è la vita?” – un turpe sinonimo di dipendenza è il bisogno dell’Altro.

“Thórarinn di Undarsel, che apre sia in punto di morte, era dello stesso parere: lui era un genio nel trattare la diarrea…” – usava il tabacco: “… certi inverni aveva dato ai suoi agnelli fino a cinque chili di trinciato forte, e diceva che se c’era da lesinare preferiva farlo sul caffè per la famiglia, per non parlare dello zucchero, piuttosto che sul tabacco per gli agnelli.” – per forza, da quelle parti si può vivere senza caffè raddolciti, ma non senza ovini.

“La Madama era un’ammiratrice entusiasta dei grandi poeti del mondo e non lodava mai abbastanza la bellezza della vita terrena, aveva grande fede nel Dio che la governa, riteneva che lui dimorasse in ogni cosa e che il ruolo dell’uomo fosse stare al Suo fianco e aiutarLo nel bello e nel brutto tempo; di un’altra vita non ne voleva sapere. Un simile modo di pensare era ritenuto dal reverendo a più pertinace delle eresie.” – e chi aveva questi grigi pensieri “disprezzava totalmente il mondo, componeva versi esclusivamente sui morti e cercava conforto nella religione cristiana, che riteneva potesse recare più vantaggio ai contadini nell’altra vita che in questa” – la religione è innanzitutto un legame, da cui bisogna dipendere senza porsi ulteriori problemi, ed è il collegamento che ti permette d’innalzarsi Altrove, dove l’anima può librarsi con leggerezza. È una questione di scelte.

“La gente di città, diceva Madama, non aveva la minima idea della pace che madre natura offre, e finché questa pace non è stata trovata lo spirito è costretto a cercare di soddisfare la sua sete con diversivi effimeri…” – che costano poco e durano ancora meno.

“Dove si trova, chiese la poetessa, una beatitudine tanto incantevole come in queste tranquille e fiorite valli montane, dove i fiori, questi occhi d’angelo, se posso così esprimermi, puntano al cielo e invitano gli uomini a inginocchiarsi davanti all’Onnipotente, alla bellezza, alla saggezza e alla carità.” – qui e ora, basta saperlo cercare. Nella ricerca stessa muore (e rinasce) il seme di tanta bellezza. Occorre avere la volontà di uscire e di affrontare tale Bellezza, senza ritegno né timore.

“… portava il suo senso materno tra le mura domestiche, si occupava dei familiari non solo per le necessità del corpo, ma lo irradiava anche su tutta la convivenza. E la donna che riveste questo ruolo d’onore deve aver cura di far da madre ai figli e alla casa. I suoi doveri sono tanto estremi e sublimi che portano in sé beatitudini fino alla terza o alla quarta generazione, sì, fino a cento generazioni.” – no, dai, a mille! Se si devono indicare i limiti dei miti, almeno millantiamo!

La lezione di Madama a Rósa, futura moglie di Bjartur, continua: “È un impegno essere la donna di casa, la madrina, è un impegno sapere di essere destinate a svolgere il ruolo più nobile e più grande che ci sia.” Nelle note si dice che “il passo si basa sulla presenza del concetto di ‘madre’ nei due termini isl.  Húsmóðir lett. ‘madre di casa’, e móðurhugur lett. ‘pensiero materno’.”

Ancora: “… rendere la propria casa tale che ovunque uno guardi trovi un radioso sorriso…”  – e centinaia di migliaia di analoghi adempimenti, fanno parte del “tuo ruolo, madrina; il ruolo che Dio stesso ti ha assegnato. E tu ne hai la forza, anche se forse non lo sai” – il problema è forse lì: non esserne consapevole.

“Quando raggiunsero il tumulo di Gunnvör, la consorte, Rósa, voleva smontare e gettare una pietra sulla tomba. Pensava che portasse buono, Gunnvör la pretende, una pietra, tiene il conto di tutti quelli coloro che attraversano il passo.” Il marito nega tale eventualità: “Pensavo bastasse credere nel vecchio reverendo Gudmundur, senza dover credere in sovrappiù anche nel vecchio diavolo. Io sono un uomo libero. E tu sei una donna libera.” – di non fare quello che lui non vuole che si faccia.

“… io pensavo che tu fossi abbastanza sensata da apprezzare l’indipendenza. L’indipendenza viene prima di tutto il resto. Io da parte mia dico che un uomo si perde molto nella vita, finché non è indipendente. Gli esseri umani che non sono indipendenti non sono esseri umani. Uno che non è padrone di se stesso, è come un uomo senza un cane.” La frase si può spiegare col concetto successivo: “in un certo senso uomini e pecore sono una cosa sola.” – tutti quanti dipendenti di qualcun altro? Successivo dogma: “… il cane è l’unica bestia che capisce l’uomo. Ma un cane è un cane e un uomo è un uomo, se è per questo…”

A un certo punto, Bjartur “era diventato talmente furioso che saltò fuori dal letto e strappò via la trapunta dalla moglie mezza nuda” – e non la picchiò solo perché lei lasciò scorrere “fiumi di lacrime finché alla fine lui ne ebbe compassione” e “di questo genere fu la loro vita coniugale.”

Per carità, niente “pecore vecchie e ronzini macilenti. Quella è carne da schiavi.”, mentre “un uomo libero può vivere di pesce bollito. È meglio l’indipendenza che la carne.” – e finisce che lei si sogna “pentole di sanguinaccio la notte. Mi sembra di tagliare salsicce in quantità: escono fumanti dal bollito col lardo che cola, a volte sono salsicce di fegato, a volte sanguinacci. Che Gesù mi aiuti.” – esiste un proverbio delle mie parti che vale per tutte le etnie, generi, religioni, partiti politici: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun, ogni coglione ha la sua passione.

Bjartur non lesina gli insulti alla sua cara mogliettina, le dice: “Non sei normale di testa” e anche “non voglio sentire altra sciocchezze”. Lei sa come colpirlo, chiedendogli: “Credevo che tu fossi un re indipendente…”, forse di quelli che devono falciare l’erba, tirarla su all’argine, trasportarla a casa. Alla fine lui, per manifestarle il suo amore, “le diede una pacca sulla spalla come avrebbe fatto con un cavallo.” Il rapporto è moribondo poco dopo la nascita: “se lui sussurrava qualcosa all’orecchio lei restava come un cadavere, e così ogni desiderio se ne andava. Non era poi tanto vispo neanche lui, era sempre così stanco, abulico, e imprecava in silenzio, i suoi diciott’anni migliori” – erano finiti altrove, “a casa dell’ufficiale distrettuale di Útiraudsmýri…”.

Bjartur era sempre “pronto a dichiarare la guerra di indipendenza personale…”.

“Uno stormo di strolaghe rosse volò basso sopra il limitare del prato con un sibilo d’ali, ancora intimorite. Non dovete più aver paura, sussurrò la giovane donna. Se n’è andato.” Ma poi torna e dice che “la verità che non rispetta lo schema metrico” (si parla di poesia, di cui gli è raffinato cultore), “non è verità. La metrica è una verità di per sé, se è giusta.” – è un concetto condivisibile in certi casi, non una teoria religiosa assoluta.

“Uno deve ben guardarsi dal credere a quello che legge nei libri. Io non considero mai i libri verità assolute, e tanto meno la Bibbia, perché nessuno può controllare quel che ci scrivono dentro. Possono inventare bugie grosse quanto vogliono, e non puoi saperlo, se non eri sul posto.” – e nessuno c’è più da tempo, colà.

“… la cosa principale, disse, quella verso cui ho sempre mirato, è l’indipendenza. E un uomo è sempre indipendente se il casolare in cui vive è di sua proprietà. Che viva o che muoia, non riguarda nessuno altro che lui stesso.”

Il “Mastro degli alpeggi” chiede a Rósa se le piace la vita nella brughiera. Risposta prevedibile: “Oh, naturalmente, è molto libera” e lo dice “tirando su col naso”. A una certa ora “S’infilò sotto la trapunta e trovò un po’ di sollievo nel tirarsela fin sopra la testa e tenersela talmente stretta da non far passare nemmeno un filo d’aria. Rimase così distesa a lungo con un tremito in tutto il corpo e un dolore nel cuore, nessun ricordo riusciva più a consolarla, l’angoscia è più forte di tutte le gioie della vita messe insieme, cercò di concentrare le sue speranze sul giorno che sarebbe arrivato, perché si cerca sempre qualcosa per rincuorarsi e questa speranza di consolazione, perfino quando non c’è più via di scampo, è il segno che si è ancora vivi.”

Nell’attesa, compie il misfatto, forse il secondo della sua vita, stroncando la vita all’agnello su cui il consorte puntava chissà quali aneliti d’indipendenza. Il suo senso di colpa è terribile ma di corta durata: “ricordò di avere ucciso solo una pecora la cui unica colpa era stata di essere spaventata almeno quanto lei nella solitudine notturna” – però “non capiva quella donna che al mattino si era alzata dal letto, insonne, con una falce in mano come la morte.”

La carne da lei immolata a se stessa era buona, “mangiò e mangiò con identica, costate avidità, come se non riuscisse a saziarsene. Fu il suo primo giorno felice da quando si era sposata.”

Quando si sentì esausta, “si coricò a letto e si addormentò. E dormì a lungo.” Torna il marito, sparisce di nuovo, ritorna, e dice: “la mia opinione è che la libertà e l’indipendenza umana è questione di non essere in debito con nessuno, anzi di essere i padroni di se stessi…” In un altro momento, la moglie gli dà ragione: “… è un bene essere indipendenti, la libertà vale più di tutto.”

Più tardi a Madama la Poetessa, “moglie dell’ufficiale distrettuale”, dice che “non trovò altro di meglio che dichiarare che tutto nella vita dipende dal trovare se stessi.”

Queste parole sono di gradimento alla ospite, la quale le dice: “Bjartur lo conosco come me stessa, non è certo un trafficone né uno speculatore, e nemmeno un adulatore, ma è una persona degna e affidabile che non tollera di essere in debito con nessuno. Persone così non finiscono a carico del distretto. Persone così sono il fondamento della nazione.”

Intanto, Rósa cucina al maritino la carne del suo adorato agnello, e quando lei dice che il piccolo nel suo ventre “ha cominciato da tempo a scalciare, dentro.”, lui risponde, pensando sempre all’agnello scomparso: “la cosa non mi riguarda”, chissà poi se è suo, quella porzione di ventre donnesco, ed è quel pensiero che lo domina e lo indirizza altrove.

Dice alla cagna: “Su, vai dentro, disse lui, è meglio che le donne restino insieme.” – e poi parte alla ricerca, mentre la moglie potrebbe procreare, da un momento all’altro. Problemi suoi.

“La brughiera era la sua madre spirituale, la sua chiesa, il suo mondo migliore, come l’oceano deve inevitabilmente esserlo per l’uomo di mare.”

I due che lo accolgono, dopo che ha corso rischi terribili, gli dicono che “non si sarebbero dati pena per gli agnelli quella notte”, così gelida e mortale.

“Si vede, dice lui, che siete gente ben sistemata. Ma io sto ancora lottando per l’indipendenza. Ho lavorato diciott’anni per il mio piccolo podere, e se l’agnello è finito nella tormenta sarebbe meglio che ci finissi anch’io.” – lo direi per un figlio, io.

“… non aveva fatto ancora un passo sul pavimento della stanza che inciampò col piede in un ostacolo imprevisto, e imprecò come era solito fare quando inciampava – contro che diavolo aveva urtato?” – col cadavere di Rósa e poi “vide sbucare da sotto il ventre del cane un minuscolo volto bruno, grinzoso, con gli occhi chiusi, come un vecchio appena nato, e su quel volto balenavano dei debolissimi movimenti spasmodici, e non era del tutto escluso che di tanto in tanto da questo fortunato corpicino uscisse un flebile vagito e un mormorio.”

Quel poco più che nulla si chiamerà Ásta Sóllilja, “Amata Girasole”. È sua figlia, il suo agnellino, essendo stata scodellata nella sua terra, nel suo casolare. Ora Bjartur temeva di dover chiedere quello che aveva negato alla moglie, “l’aiuto altrui”: “era la resa dell’uomo indipendente al potere del suo peggior nemico.” – l’Altro.

Il pastore Gudmundur di Stadur gli offre del caffè e lui dice che ne ha “già scolate tre tazze” e l’amico gli dice: “Eh, fa’ come ti pare, io non ne bevo mai meno di trenta al giorno” – forse che ad Amalfi non dicono non meno di tre e non più di trentatré? Bjartur lo assicurava che la donna di cui è vedovo “era cristiana a modo suo. Ma sempre con moderazione, ecco.” Il buon pastore ironizza su quel fatto e dice che, altrove, “nella regione della Rángárvallasýsla, lì sì che sono cristiani, c’era un santo e un profeta ogni due fattorie…” – beatamente iscritti negli elenchi dei braccianti agricoli. Oltre che questi bei discorsi, il pastore gli consegna benevolmente una nuova moglie di nome Finna insieme a una suocera di nome Hallbera. Rósa è interrata, poco prima che finisca la Parte I del Libro I, intitolata Il colonizzatore di Islanda.

Ora inizia la Parte II, che è il Patrimonio sdebitato. L’inizio del primo capitolo (che è il numero 27 del romanzo) è così lirico che non può essere descritto. Riporto l’esordio: “Lentamente, lentamente il giorno d’inverno schiude il suo occhio artico…” – nonché la coda: “… la morte dalla quale nessuno ritorna come nelle storie della nonna, la morte che ti chiamerà quando sarai tanto vecchio da essere diventato di nuovo un bambino.”

La moglie novella gli reca in dono nuovi figlioli, sicuramente suoi. La nonna chiama “pezzettino mio” e poi “piccino mio” il più piccolo, Nonni, “bimbo di sette anni”, quando lui le dice che qualcuno non morrà: il padre. Lei non lo vede di buon occhio e dice, spaventando il nipote: “Oh, muore anche lui…”   

La mamma è ammalata, e “inconsciamente al bambino viene in mente l’idea che tutto il male che patisce la mamma sia colpa di suo padre, è lui che dorme sempre con lei, lui che pensa di essere il padrone, di comandarla…”, anche se stanotte “le tiene la mano, cosa che non è mai solito fare…” – mistero! “Poche cose sono più incostanti e più instabili di un cuore che ama, eppure è quello l’unico luogo al mondo dove esiste la comprensione…” – che dura un attimo eterno e che poi svanisce, dopo di cui “il sonno è più forte del più nobile sentimento di un cuore che ama” – che ha bisogno di ricaricarsi di nuova energia. Un altro mistero: “Il dolore dei bambini andava e veniva, la sofferenza della mamma rimaneva sempre lì…”

Nonny è l’unico essere sveglio a quell’ora, e questo gli reca ansia. Riproduce in crescendo, i versi di un topolino, quello di un cane, e infine il rumore quello del “vento di terra”, quando questo “ulula attraverso la porta aperta… Ora basta.” – è Hallbera che gli impone di tacere.

“Poi la nonna si avvolse lo scialle di lana intorno alla testa. In quei gesti brancolanti, negli occhi tremuli della vecchia della vecchia lui salutava ogni giorno, salutava il ritorno della realtà concreta.” Non è un dato da poco: la realtà può non sembrare tale.

Nonny “a questo punto di solito” aveva fame e “sentiva di poter mangiare qualsiasi cosa riuscisse a mettere sotto i denti, non solo fieno, ma anche torba e letame.” La nonna, amorevole, “recitava qualcosa di davvero bello” – è il suo compito principale.

“E così va avanti a lungo. I salmi non sembrano mai tanto luoghi come nei giorni dell’infanzia, il loro mondo e la loro parlata mai altrettanto lontani dall’anima. In vecchiaia è invece l’opposto, i salmi sono troppo brevi per il passare dei giorni” – il tempo è una finzione dolorosa, a cui non si sa rinunciare. Dice al suo pupo: “Che storie vuoi che sappia sugli spiriti, una vecchia smemorata che tiene l’anima coi denti.”

C’è anche Ásta Sóllilja, che ora “ha quasi quattordici anni, la poverina, mi pare sia nata intorno alla prima rata del terreno, ci potrei quasi giurare.” – così dice Bjartur, che ha più contezza di un avvenimento rispetto a quell’altro, e che ammette che “se non fosse stato per questo straccio di terreno che ho avuto sulla coscienza per dodici anni, me la sarei certo comprata una mucca, e anche un bracciante. Ma sono sempre stato dell’opinione che nella vita l’indipendenza e la libertà hanno più valore di tutto il bestiame che un piccolo agricoltore può metter su a forza di debiti.” – e la famiglia? La moglie, i figli? Su questi argomenti non si esprime. Soltanto questo gli importa: “Io sono un uomo libero.” – e anche: “… noi qui sulla brughiera siamo gente indipendente. Gente inconcludente, disse l’ufficiale distrettuale.”

La questione è sempre aperta: “… Adesso stanno minacciando di farmi ingurgitare una mucca. Ma tua madre è morta qui in questa stanza, senza permette a nessuno di offrirle qualcosa. Quella sì che era una donna indipendente. Bjartur era molto orgoglioso di quella moglie tredici anni dopo che era morta, innamorata del suo ricordo, e ne aveva dimenticato i difetti. Ma quando vide dal tremito della spalla di sua figlia che stava piangendo sulla rigovernatura, ricordo che le femmine sono da compatire più degli uomini e hanno bisogno di costante consolazione…” – e questo non toglie che “Bjartur non si sentiva tanto disarmato di fronte a nessuno come a questa sua bambinetta strabica con quel bel nome…” – figlia di chissà chi. Lei “si appoggiò contro di lui e le sembrò che fosse la forza più grande del mondo…”. Lei vuole… sapere, uscire, essere indipendente. Lui le insegna qualcosa, poco, che per lei è tanto.

“Con questo preludio alla ballata degli Jomsvichingi Ásta Sóllilja cominciò la sua educazione letteraria…” – dopo di cui “là rimasero seduti tutta la notte, la foriera di luce e il meridione scarlatto, fino a che il sole non issò il suo corso…” – poi, “la sera quando era a letto si tirava le coltri fin oltre la testa, e la piccola stanza di Sumarhús non esisteva più, c’era piuttosto Faustina, la bella ‘Rosaria Seduta’, in camera sua che pensava al cavaliere che conquistava tutto e lo aspettava.”

Il padre era “l’uomo più forte del mondo e il più grande poeta, conosceva le risposte a tutto, capiva tutte le ballate antiche, non aveva paura di niente e di nessuno, combatteva da solo contro tutti su una riva lontana, indipendente e libero; uno contro tutti.” – non con qualcuno.

“Lui scese a sistemare gli agnelli per la notte, lei contò i suoi passi giù per la scala, lui mormorò qualcosa agli agnelli, lei seguì tutto con attenzione, lui tornò mormorando su per le scale, lei aveva ancora il batticuore.”

Laxness e io siamo lì, “quando fece di nuovo capolino da sotto le coltri lui aveva già spento la luce. Notte.” Notte!

“… il ruscello è quasi ampio quanto il mare, ci si può immaginare che il mondo sia sull’altro lato, tanto ampio è il ruscello.” – tutto è relativo, soprattutto l’illusione.

Per Nonny il ruscello “scorreva trasparente e gioioso sulla sabbia luminosa e sui ciottoli, tra le sponde bianche di erba appassita, la sua gioia è eternamente nuova a ogni primavera da mille anni, racconta mille storie, nel suo piccolo gergo, con le sue piccole modulazioni, mentre sulla sponda è seduto il bambino e ascolta, da mille anni. Il bambino e l’eternità, due amici, il cielo sopra la terra sgombro e infinito. Sì.”

E poi c’erano gli altri due fratelli, due caratteri diversi, finora poco emersi. A una sfuriata di Bjartur contro chi s’impiccia della sua vita, mettendo a rischio la connessa indipendenza, “l’ufficiale distrettuale non risponde a questo rovescio, ma dallo sguardo non pareva per niente turbato – lui stesso era il modello di tutti gli indipendenti, per cui in fondo aveva probabilmente ancor meno considerazione per la carità e la disposizione d’animo cristiana…”. Lo chiama “mio caro Bjartur”, e lui precisa: “Io non sono il tuo caro Bjartur. Io sono Gudbiartur Jónsson, fattore di Sumarhús.” Al che lui: “Be’, allora, Gudbiartur Jónsson, disse il delegato col suo sorriso algido e il capo gettato indietro in arrogante indifferenza. E io mi chiamo Íngólfur Arnarson. E come implica il nome sono un colonizzatore…” E poi descrive “il nostro programma, il programma dei nuovi colonizzatori d’Islanda.” – molto previdenziale si direbbe oggi. Ma non c’è verso, Bjartur “si infuriò e si mise a parlare in maniera incoerente, e disse di essere un libero islandese e, e, e, non me importa un diavolo, e, e mi farete a pezzetti vivo come hanno fatto con la buonanima Gunvvör al cancello del cimitero di….”.

Sentiamo l’altra campana, quella privata: “Il commerciante confermò che le cooperative non avrebbero mai potuto diventare altro che un fallimento per la nazione, non diversamente da altre forme di monopolio che miravano a distruggere l’iniziativa del singolo, la sua libertà e l’indipendenza. Invece il nostro emporio qui rimane aperto per te con quello che contiene…”

Nel Capitolo 33, intitolato Oppressione del genere umano, è detto che “quell’estate fu particolare tra tutte, perché fu la prima volta che Bjartur di Sumarhús impiegò del lavoro dipendente e la svolta provocò una svolta temporale nella storia: gli eventi accaduti fin qui risalgono a molto tempo prima di quell’estate in cui presi la maledetta Frída; quelli che accaddero dopo, furono dopo che Frída venne a stare qui, che non ci sarebbe mai nemmeno dovuta venire. Chi è Frída?”

Qualcosa mi sfugge ma se si ferma, forse prima o poi lo raggiungo: “E c’era una volta, nel cuore dell’inverno, durante una furiosa tempesta di neve, una certa regina seduta alla finestra de suo palazzo, intenta a ricamare – era una notte prima della fienagione, sedeva sul piancito della fattoria, a guardia del campo, e leggeva questo libro. Lo lesse tutto lì fuori dalla porta e poco dopo la mezzanotte l’aveva già finito, e lo ricominciò immediatamente da capo, e quando l’ebbe finito per la seconda volta stava sorgendo il sole. E rimase a fissare a lungo verso sud sulla brughiera, rivedendo la storia tra sé. Più e più volte ripercorse i passi di Biancaneve sulle sette montagne…” – Bjartur aveva appena regalato una favola alla figlia prediletta. Egli “aveva un corto giustacuore che usava in occasione di qualsiasi cerimonia come la cerca delle pecore e i tragitti autunnali in paese…” – e “accadeva che lo prestasse ad Ásta Sóllilja al mattino se le condizioni meteorologiche erano tali che pareva dovesse piovere per tutto il giorno.”

Bjartur “era allo stesso tempo la suprema esistenza e l’estremo raziocinio di tutto quello che accadeva alla fattoria, era prima di tutto il fato incontrovertibile di questo piccolo mondo, la causa non negoziabile, la sua dittatura rendeva impraticabile ogni critica, e di conseguenza impossibile opporsi alle sue disposizioni in maniera organizzata e sistematica. Eppure i ragazzi coltivavano da tempo sensazioni vaghe, antipatie mute contro il padre…”. Il quale diceva: “questa è la mia terra, e non mi importa niente che degli sconosciuti vengano a specularci sopra. Sono passati quattordici anni da quando ho tirato su quel casale dalle rovine, e per quel che riguarda la gente di Raudsmýri, io con loro ho chiuso. Mi è stato detto all’inizio che qui c’era uno spirito, ma io non ho paura né degli spiriti né degli uomini. Ho delle buone bestie.” – fra cui una moglie, che tanto buona (nel senso che dà lui) non era.

“Quella sera la mucca era insolitamente strana” – come a volte sono le femmine – “nel comportamento verso di lei, non le obbediva, non si lasciava condurre, girava continuamente intorno al vitellino, lo annusava e lo leccava muggendo debolmente a ogni passo, non aveva pensiero per nessun altro. Ma la donna lo comprendeva. Quando uno ha dato alla luce un vitello, è lui che si intromette tra la madre e coloro che prima lei aveva più a cuore.” – una legge tanto umana quanto naturale, essenziale non meno di altre. La vacca, “spensierata nella sua nuova vita vagava con suo figlio verso la montagna durante il giorno, e si perdeva quasi, tanto le pareva di essere indipendente dalla vita egli umani, lei che prima trovava riparo nella protezione della donna, niente più rapporti con gli esseri umani!”  Intanto, “… Bjartur era già ben oltre verso est sulle paludi a cavallo del vecchio Blesi…” – il quadrupede che era così geloso della vacca – “con i tagli del vitello per il commerciante sul basto davanti a sé.” Previsione della “vecchia Frída: così vi macellerà tutti…”. Dopo quell’immensa e minima tragedia, “per l’intera settimana la donna non ebbe il coraggio di andare a vedere la mucca, e la vecchia Frída fu prescelta per la mungitura. Niente è tanto spietato quanto la vita umana…” – spietata: tolta la pietà significa, ammesso che ci sia stata e che sia mai servita a qualcosa. Una tigre, un cobra, uno squalo non sono spietati; un sant’uomo può diventarlo, se occorre esserlo.

“… Risulta anche molto difficile giustificare la vita umana, soprattutto alle mute bestie intorno a noi…” – lo è anche nei confronti di quelle che parlano e non ti ascoltano.

“… Ma i primi giorni sono sempre i peggiori, e c’è un gran conforto nel fatto che i crimini e i dolori si estinguono, non meno dell’amore.” A proposito di femmine sensibili e sofferenti, Ásta Sóllilja s’imbatte in un uomo che viene dal sud, che, dopo aver salutato tutti, “le accarezzò la guancia come se fosse una bambina. Un bel nome in una valle, disse. Sono sicuro che non lo dimenticherò mai. Rimase sveglia a letto e pregò Dio senza conoscere Dio, e pensò e ripensò al fatto che lui non l’avrebbe mai dimenticata. Mai. Non vedeva l’ora che arrivasse l’estate successiva quando lui sarebbe tornato…” – e in quello stato euforico, talvolta dubbioso, cominciò a trascorrere il tempo, consumando la sua nuova esistenza.

Per lei il padre rimaneva però il punto reale (non sognato) di riferimento. Gli dice: “… non vedo l’ora che tu costruisca la casa.” Lei scorgeva “il volto dell’uomo che era dentro. Quel volto nessuno l’aveva mai visto tranne lei. I suoi versi palindromi erano composti in maniera così complessa che non avrebbero mai raggiunto un contenuto apprezzabile; e così era la sua vita.” Lei continuava a sognare “lui”, che non avrebbe mai dimenticato il suo nome.

“Ma seppure Bjartur volesse bene alle pecore e pensasse costantemente alle pecore, e avesse perfino una certa reputazione di saperci fare piuttosto bene con le pecore, era sempre per il rotto della cuffia che queste tanto discusse pecore sopravvivevano all’inverno, per non dire poi alla primavera.” – il che è un periodo lungo e appropriato in riferimento all’argomento pecore.

La mucca Búkolla è depressa. Il cavallo Blesi pure. I bimbi amano il latte bovino. Bjartur non ha gioito del bel tempo, ora c’è freddo, però. Le pecore muoiono in quantità (25, di cui Laxness elenca i nomi). Se Bjartur ammazzerà la vacca, la moglie vuole essere ammazzata per prima. Entrambi gli accadimenti accadranno.

“In quel momento fu tutto finito per Finna di Sumarhús, questa donna di poche parole, amante della musica, che aveva dato alla luce molti figli per l’indipendenza della nazione, ma anche per la morte…” – e con lei, fra poco cessa il Libro I e iniziano i suoi effetti.

Libro II – La Parte I s’intitola, tanto per cambiare, Tempi duri: “Quando la primavera arriva con la morte, l’estate trascorre in un funerale, e l’anima – l’anima? Che pensa allora l’anima, in un nuovo autunno, all’inizio dell’inverno?” A rispondere non può essere che lei, l’anima di Laxness, la quale avrà il suo bel da fare prima che tutti gli armenti siano raccolti e ricoverati al sicuro, al calduccio.

“Ed ero sicuro che se il popolo nascosto esisteva l’avrebbe aiutata. E magari tutti noi finché non è morta.” – e la conseguenza del ragionamento è che non l’hanno aiutata. Il popolo nascosto, che è quello che vive nei boschi, celato alla vista di chi non crede in lui, “non esiste. Non è in questa roccia e nemmeno nelle altre rocce, in nessuna roccia. La mamma ce lo raccontava solo perché eravamo tanto piccoli; e perché non era una persona abbastanza cattiva.”

Helgi, il fratello maggiore, dice che “l’uomo del salmo del maltempo, ed è Koumkilli” esiste e li lo ha visto: “E sai perché lo vedo, disse l’altro, afferrando il piccolo Nonni per i gomiti e stringendoglieli forti mentre gli sussurrava in faccia: È perché anch’io sono morto. Nonni, vedi, guardami, guardami negli occhi, stai guardando un uomo morto. Due opposti simmetrici, gli eterni opposti della forma umana; in un nuovo autunno, alle soglie dell’inverno; crepuscolo i confini tra mondo e non mondo cancellati; luna appena sorta dietro le nuvole.”

Di poco v’è certezza, ma per Bjartur di sicuro è che “le persone indipendenti non hanno bisogno di religione, lui si fidava di se stesso, qualsiasi spirito fosse in circolazione… Bjartur, che ha pur perso due mogli, dice allo spirito maligno: “Eccomi qui, Bjartur di Sumarhús, un uomo libero in questo paese, un islandese indipendente dai tempi della Colonizzazione a oggi. Potete scaraventarmi la montagna addosso. Ma la pietra non ve la darò mai.” – e poi getta “la pietra giù nel burrone”.

L’uomo indipendente, colui che non era mai stato “incline a cercare l’aiuto altrui” – e oggi meno che mai, “giratosi sui tacchi, si avviò verso la sua valle.”

In ogni crisi occorre individuare la causa che ti permetterà di non lasciare la questione a se stessa, per esempio a una moria immotivata di pecore.

“… a tutti risultava tanto più facile credere a un’incursione di spiriti quanto più difficile era stato credere a un’incursione di ratti, perché l’anima umana ha una predilezione per l’incredibile, mentre dubita del credibile.”

Fu concordato di “camminare” insieme per rappresentare un’unità da contrapporre al Male, e questo mezzo di persuasione collettiva è anche oggi frequentemente utilizzato, con scarsi risultati però.

Il reverendo “colse l’occasione per innalzare una preghiera, che a noi possano aprirsi le porte del cielo perché possiamo vederne la luce…”. Poi “qualcuno aveva proposto un caffè, tutti furono d’accordo e la cerimonia religiosa si disgregò” – a casa di Bjartur. La discussione che ne segue non fa bene alla socialità, per cui l’indipendente per eccellenza dice alla figlia: “… togli la cuccuma dalla stufa, Sóla cara, io questa gente non la conosco, né loro sono venuti a trovare me.”

Il tempo è a dir poco inclemente, l’ufficiale del distretto “sgarbato e di pessimo umore” in attesa dell’arrivo del prefetto ma, si sa, “chi è andato tanto a scuola ha paura della prima falda di neve” – à studiê trôp, come dicono dalle mie parti.

“La cosa più fastidiosa dell’inverno non è il buio; forse la cosa ancora più fastidiosa è che non possa mai farsi così buio da far dimenticare l’interminabile di cui è simbolo” e “che riempie il cielo come la giustizia, inesorabile come lei.”

Nel frattempo, Helgi, “il fratello maggiore” s’era “smarrito nella neve e il distretto l’aveva cercato senza alcun risultato per i due ultimi giorni prima di Natale, ma Bjartur di Sumarhús, lui non pensava mai a niente di quel che aveva perso, finché era sicuro di averlo perso, era anche un po’ arrabbiato coi bambini perché non vedeva loro in faccia segno di gioia, nemmeno per Natale, e così venne il momento di coricarsi e la notte di Natale sopraggiunse col suo sonno inquieto da mal di pancia, o le sue veglie.”

Ásta: “una guancia destra che in due momenti della giornata non era mai la stessa; i suoi pensieri oscillavano tra il timore e l’anticipazione, come il cielo estivo d’Islanda con le sue condizioni vive, i suoi volubili sprazzi di sole; e le ombre che vanno vengono…” – per fortuna c’era “la sua malevola guancia sinistra ad aiutarla” – a ben indirizzarla, anche se non sempre.

Bjartur avverte la figlia: “Vado via dopo Natale e vi lascio qui. Non tornerò prima di Pasqua.” – motivo: “Ho perso molte bestie…” Al che “lei lo guarda col batticuore e sa che sta parlando di questioni serie anche se fa fatica a capirlo, due esseri umani fanno così fatica a capirsi l’un l’altro, non c’è nulla di più tragico di due esseri umani.” A Bjartur non “piacevano le lacrime, non gli erano mai piaciute, non le aveva mai capite, a volte ci aveva perso la testa, ma adesso sentiva di non poter rimproverare questo fiore della sua vita, questa figurina innocente, l’acqua è compagna della gioventù, e oltretutto era la notte di Natale” – per tutti, ma forse non per il disperso figlio. Ed è un pensiero mio, non di Bjartur.

“… e il moscone aveva continuato a ronzare al riparo della finestrella in mezzo ai raggi del sole, indifferente al fatto che l’amata agonia della vita si era assopita nella fattoria e il silenzio della morte regnava sul sottotetto, irrelato al silenzio del cuore – quella creatura che ama il canto e che si riduce a una singola nota.”

Gvendur e Nonni hanno finito di lavorare e ora si sentono spiazzati: “… si siedono sul cumulo di neve, senza comprendersi l’un l’altro, e osservano senza energia la stessa brughiera. È difficile non poter mai riposare, ma ancora più difficile esistere quando nessuno ti dice più cosa devi fare – ora come si fa a darsi ancora da fare. Allora al fratello minore venne in mente la nonna…”. Un uomo si presenta, sbucando da chissà dove: “Ho trascorso tanto tempo nel nostro grande mondo e ho osservato l’oceano della vita umana”, per cui ora anela “a un piccolo mondo dietro ai monti, a una vita semplice e beata come quella che si svolge in questa stanza…” – è stato inviato lì da Bjartur perché istruisca i figli, e presto promette ai tre giovani di favorire i loro sogni.

Gvendur desidera: “che il bestiame di papà passi bene l’inverno. E che lui possa lavorare per guadagnare tanti soldi. E comprare altre bestie in autunno.” Nonni desidera vedere “altri posti”, tipo “quello in cui scorre il Mississippi nella poesia.”

Rimaneva la ragazzina e ormai donna: “Non appena furono di nuovo sotto le coltri si allungò a prendere la lampada, spense la luce, e prese Ásta Sóllilja.” … che “aveva accolto la felicità di lui, si era sentita scorrere un fiotto dentro e si era appoggiata a lui del tutto involontariamente perché si era sentita scorrere un fiotto dentro nel cuore della notte quando lui aveva spento la luce. Poteva farci qualcosa, lei, se si era sentita scorrere un fiotto dentro? Perché uno si sente un fiotto, dentro? La vita stessa, uno non può farci niente con la vita, solo vivere” – e poi Laxness mi fa altre domande a cui non ho mai rinunciato a tentare di rispondere, seppure non sia mai stato in grado di farlo.

“… quando lui le aveva messo le braccia intorno ed erano uno accanto all’altra e non c’era niente a separarli, e lei credeva che fosse la felicità in persona, e aveva dimenticato suo papà e tutto il…”. Lui è disperato: “Sono un uomo morto, sussurrò sulla tazza di caffè. Lasciami stare. Non lo merito.” Lei lo tranquillizza: “Non hai fatto niente” (hai fatto tutto!), “avevi il permesso di farlo” (l’amore non ne necessita!), “Se era sbagliato, allora è colpa mia. Ma non era sbagliato” (esiste un’etica dei sentimenti?). “E non mi hai fatto male. E puoi farlo di nuovo quando vuoi, papà non lo saprà mai. Dio non è affatto tanto cattivo come credi.” – (speróm dai!).

Intanto, il padre, non un qualsiasi dio, torna e scopre che “il credito di Bjartur di Sumarhús è andato perduto, e nessuno che ne risponda.” – il commerciante Túliníus Jensen è fallito e ha coinvolto nel suo disastro un sacco di piccoli proprietari come lui.

“… Ma io non credo a niente e meno che mai alle parole. E per questo non chiedo regali…” – Bjartur chiede i soldi che nessuno potrà mai restituirgli.

“Ma, aggiunse, quando uno ha un fiore nella vita… A questo punto gli sembrò di aver detto troppo, e non concluse la frase.”

Le pecore s’assomigliano agli uomini? “… si nascondono tra conche e burroni e brucano quel che trovano sotto la neve. Ma quando uno meno se l’aspetta scappano partendo a corsa sfrenata verso la cima del burrone o dritte nella conca, e sfrecciano a tutta velocità contro il vento, contro la vastità, contro l’infinito; perché pure le pecore amano e hanno fede nell’infinito.” – anch’esse saltellano una dopo l’altra dentro l’Illusione Finale.

“Bjartur non si aspettava affatto di trovarvi una carcassa, perché non aveva perso nessun capo nella primavera…” – soltanto un figlio. “… il volto era stato cancellato e un alto volto aveva preso il suo posto”. Dice l’inconsapevole padre: “Ognuno fa la fine che merita, e aspirò una generosa presa. La cagna continuava ad abbaiare.” Bjartur “si tolse la manopola dalla mano destra e la gettò al cadavere, perché è considerato scortese dopo che si è trovato un cadavere senza avergli fatto del bene.”

Hallbera gli chiede che fine ha fatto l’altro guanto. “Non parliamone più. Vecchia mia, fece lui.” – e lei “non ebbe bisogno di chiedere altro; non ebbe bisogno di chiedere.” – una volta la vita era più corta ma c’era più tempo (e più lavori da fare), e anche dalle mie parte si usava ripetere il concetto: te lo dico io, te lo dico, ataldeghmetaldeg!.

Dice Sóla al fratello “più piccolo”: “Dio è contro l’anima.” – e poi gli confessa che il desiderio che aveva espresso era: “L’amore, l’amore, l’amore.” – e ora si lamenta: “Vorrei poter morire, morire morire.” Per lui “era la prima vota che guardava dentro il labirinto dell’animo umano. Era ben lungi dal capire.” – e con l’età poi si comprende sempre meno, ma uno se ne fa una ragione. “Ma quel che contava: soffriva con lei. Molto, molto tempo dopo rivisse questo ricordo nel canto; nel suo canto più bello, e nel più bel canto del mondo. Perché la comprensione della solitudine dell’anima, del confitto fra due estremi, non è la fonte del canto più sublime. La compassione è la fonte del canto più sublime. La compassione di Ásta Sóllilja sulla terra.”

Qualcuno scrive una lettera al padre, invitandolo a far andare Nonni in America.

“Vuoi andare? Sì, disse il bambino, e si mise a frignare. Bene, bene, disse il padre e si alzò. Allora la questione è chiusa. Te l’ho chiesto solo perché sono dell’avviso che uno non debba fare nient’altro che quello che decide da solo.”

L’estremo consiglio della nonna: “Vorrei chiederti di non essere mai insolente con gli umili. E di non trattare ai male gli animali. Ringrazia la nonna, caro Nonni, dice Ásta Sóllilja. Ti sta dando l’unica cosa che ha.” – quel che, quando lo dai, ti rimane ancora.

Bjartur non è un fior di femminista, quando dice: “… è come ho detto e ripetuto io, sia alla cagna che alle mie donne: le femmine sono da compatire più degli esseri umani.” – e dei mufloni, immagino.

“… cosa vuoi che importi alla gente allevata nell’indipendenza di render conto di cosa gli passa per la testa. La mente, si sa, è un refolo. E come si dice: tempo rifatto di notte, se dura un giorno dura troppo.”

Aveva mandato la figlia dalla Poetessa e questa la riporta indietro, dicendogli: “… E lei l’ha ammesso. È evidentemente gravida. Se lo porta dietro da circa quattro mesi ormai.”

Reazione dell’uomo indipendente: “Sei tu che sei parente di Ásta Sóllilja e ne sei responsabile. Voi di Raudsmýri l’avete concepita nel ventre di sua madre e poi l’avete abbandonata, e lei con me non ha nulla a che vedere…” – e altre mille insolenze, basate su una neonata verità che si ricollega a una defunta, alla fine delle quali “la poetessa rimase lì seduta in imbarazzo, con la terra dell’uomo sotto la mano e lo guardò allontanarsi: era come un esercito invincibile. Era lei che era stata sconfitta.” Alla figlia dice poco, fra cui, dopo un necessario ceffone, queste amabili parole: “… per la vergogna di cui ha coperto il mio podere, il podere che io ho comperato. È davvero meglio che in te non ci si sia nemmeno una goccia del mio sangue, e per questo voglio chiederti di allevare i tuoi bastardi in casa di chi ti è più imparentato di me.” Lei capì che non era mai stato suo padre: “Con lui aveva vissuto nelle mani di un troll, e aveva creduto di essere lei un troll. E adesso se ne sta ad un tratto fuori dalla porta e scopre di non appartenere alla razza dei troll. In un breve istante si era liberata di questo troll, era solo un essere umano, magari la figlia di un re, come Biancaneve e le altre…”.

Per tre volte, in tre momenti diversi lei pronuncia le salvifiche parole: “Sono io.”

Sta infuriando una malvagia tempesta gelata, chissà se le sopravvivrà: ma lei è e lei resterà.

Un pensiero coglie il troll che era rimasto colà: “… la Kápa era sul pesante. Verso la mattina aveva figliato tre agnelli. Questi poverini stavano affannandosi per tirarsi su in piedi e…”.

La madre si avvicinò al padrone bipede e, “mentre lui era seduto coi suoi tre agnellini in grembo, annusò amichevolmente il suo volto sgraziato e gli alitò impercettibilmente il respiro caldo nella barba, come per gratitudine” – anch’io lo sono, grato, a Laxness che, tra Roma e Nizza, nell’inverno 1934-35, ha finito questa Prima parte del Secondo Libro. La Seconda s’intitola Anni prosperi.

Battutina infelicemente indipendente di quel serioso mattacchione di Bjartur: “Per quella che è la mia esperienza con le femmine, io credo che sia quasi vero che quasi tutte le donne vogliono farsi violentare, o giù di lì.” – il problema, fratello indipendente, è che la stragrande maggioranza di femmine che hai conosciuto e le uniche che hai compreso, erano così lanose!

Un suo meno cinico (nel senso di cane, stavolta pastore) amico si pone il quesito sugli ideali, se portano a uccidere (come nell’attuale Grande Guerra), una vita, senza ideali, però, “sarebbe vuota” e “perché se l’ideale non è la vita, e la vita non è ideale, allora l’ideale cos’è? Cos’è la vita?” Ecco cosa gli risponde il nostro eroe: “la gente non può prendersela che con se stessa, se vuole che le cose vadano così…” E le cose vanno da Dio (ammesso che esista questo losco individuo): Bjartur, “prima che se ne fosse reso conto era arrivato a duecentocinquanta ovini, due bovini e tre cavalli, lavoranti salariati durante l’estate, sia uomini che donne, uno straccio di massaia durante l’inverno e un bestiaio, e oltretutto aveva sistemato il vecchio ovile al piano di…”.

È un miracolo, anche se non una conversione vera e propria, ma ben poco ci manca: “… era venuto il momento di concedere una piccola redenzione a quella donna fraintesa e darle una pietra, dimenticare tutto il resto, anche se di tanto in tanto si era smarrita nelle difficoltà. Anzi, voleva perfino prestarle il proprio nome perché le tenesse compagnia nei tempi a venire al posto di quelle indegne definizioni papiste che l’avevano accompagnata fin lì; e istruì gli scalpellini perché incidessero: a Gunnvör da Bjartur. 62. Biglietti d’ingresso. Così il piccolo Gvendur è diventato grande.”

L’unico consanguineo degno figlio di Bjartur, “non aveva mai desiderato altra felicità che la felicità di sapere che gli ovini si riproducevano con successo nelle loro stagioni consuete…” e “per Bjartur non c’era nulla di più naturale che avere quel figlio; era forse più strano per lui non averne sette, di figli così, ma chi puo averne colpa.”

Risposte di Bjartur alle varie richieste che riceve dall’ufficiale distrettuale: “io costruisco quando mi pare”, “io da te compro quando mi pare”, però quello offre “quindicimila corone”, che “tutte insieme devono essere soldi falsi, a meno che uno non abbia lavorato lui stesso per guadagnarsele, cosa che nessuno fa – la cosa più giusta sarebbe cavalcargli dietro e ammazzarlo…”.

Dall’America arriva una nuova lettera con infilati due biglietti blu da cento dollari e un invito per Gvendur di utilizzarli per andare colà. America, un luogo così immenso e lontano che forse non esiste neanche. No, “Sumarhús è grande come qualsiasi altro paese, e chi non è capace di diventare qualcuno a Sumarhús non ne sarà capace nemmeno in un altro paese.” – parola di un agricoltore-pastore indipendente.

“Cos’è il mondo? Questo è il mondo, il mondo è qui, a Sumarhús, il mio podere, questo è il mondo” – e “hai visto due cartamonete blu dall’America, che ovviamente sono false come tutti i gran denari che ti piombano in mano senza muovere un dito, lo scoprirai da solo prima o poi che è Sumarhús il mondo, e allora lo so io che avrai modo di ripensare a quello che ti ho detto.

Conversazione chiusa con freddezza. 63. Pallido e insonne. Non fece altri tentativi per dissuadere suo figlio; è segno di debolezza cercare di dissuadere la gente, un uomo indipendente pensa solo per sé e lascia che gli altri facciano quel che credono, lui non aveva mai permesso a nessuno di dissuaderlo.”

Il che non significa che Bjartur non abbia mai cambiato idea, come per quel fatto della pietra e dell’acquisto di due vacche, sì, anche per la cooperativa, a cui ora s’affidava, per quanto non la smetteva mai di diffidare di chiunque, ma sempre ha deciso indipendentemente dal giudizio altrui.

Il figlio, prima di andar via, gli vuol regalare le sue poche pecore. Risposta bjarturiana: “No. Ma te le posso affogare nell’acquitrino.” Al momento della partenza, “Bjartur non si diede nemmeno la pena di arrampicarsi fuori dal canale e gli disse addio da sotto, dal fango.” Quando il ragazzo gli chiede di non pensare male di lui, gli dice, bonariamente: “Ho paura che ti maltrattino, ragazzo mio. Ammazzano tutti quelli che hanno un po’ di decenza. Ma qui saresti potuto diventare un uomo indipendente come me, questo è abbandonare il proprio regno per diventare servo di qualcun altro…” – e poi gli augura buon viaggio. “Vada chi vuole andare, probabilmente è meglio così.”

Stavo pensando allo scontro che Gavino Ledda, al termine del suo primo libro, ebbe col padre padrone. La differenza è qui: Bjartur è padre, è padrone, ma rispetta le scelte altrui: ognuno per la sua strada, prima o poi indipendente dagli altri.

A Gvendur fa per ultimo imparare una poesia che dovrà cantare alla rinnegata figlia, a cui dovrà anche dirle “che da me le cose sono sempre le stesse, a parte che il casale si è inclinato lievemente un paio di anni fa, con le gelate invernale”, ma che “quando costruirò la casa, la costruirò in modo che non pensa. E sarà fatto più prima che poi. Ma questo non dirglielo da parte mia. E detto questo tornò di nuovo a dedicarsi al suo lavoro.”  

Gvendur incontra una sorella in cui “c’era qualcosa di forte e di debole insieme, di attraente e di sgradevole; non si poteva non notarla, non c’era un solo tratto morbido nel suo volto, non un attimo muto nello sguardo, nessun gesto senza un’espressione personale, e tutte le sue espressioni davano segnali contrari, umiliazione e riscatto a un tempo.” Gvendur le dice che va in America, e lei le dice: “Povero ragazzo”. Quando lei pronuncia il nome del padre (nella frase: “Pensavo saresti diventato un uomo indipendente, come Bjartur di Sumarhús”), usa “un sorriso freddo, senza esitazioni. Quel che aveva acquisito in forza, l’aveva perso in sensibilità.” Gli dice anche: “… Bjartur di Sumarhús è dentro di te; com’è dentro di me, anche se io magari non sono sua parente.” Lui le offre le pecore, ma lei non accetta regali: “io e la mia piccola, anche noi siamo gente indipendente, vedi, siamo un regno sovrano. Amiamo la libertà come il nostro omonimo, io e la piccola Björt. Preferiamo di essere liberi di morire piuttosto che accettare un regalo.” Lei vive con l’uomo che ama, che “tutto quel che il suo amato possedeva non erano che questi sogni. E la capacità di bere fino a ubriacarsi.” Lui le recita la poesia del padre, che a lei non piace per niente: ride, e gli dice di dire a quell’altro che lei vive con chi “non mi caccerà mai via, perché mi ama; diglielo, a Bjartur di Sumarhús”

In America Gvendur non va, perché conosce una ragazzina che ride così tanto che lo fa innamorare.

Tralascio di commentare il capitolo 66. Politica (è interessante e basta leggerlo), se non per un ragionamento che contiene e che mi sollazza: “il socialismo sta tutto nel far promesse infinite agli indigenti, che non potranno mai avere possibilità di venir mantenute finché il genere umano non arriverà al livello degli dei; e in realtà questo movimento non ha altro scopo che rubare e ammazzare…” quel che Íngólfur Arnason forse intende è che l’uomo è uomo ovunque e che gli dei sono dei chissà dove: solo i primi scendono in politica, ma non salgono mai in cielo.

Gvendur s’imbatte un anno dopo con la ragazzina che l’aveva ubriacato d’amore, per cui aveva rinunciato all’America, ma ora lei lo maltratta, gli dà del somaro, del cialtrone e lo lascia sempre di più schiavo d’amore, altro che indipendente! Chissà se la incontrerà ancora?!

Il padre, da cui è tornato, gli ricorda che “Ásta Sóllilja si è lasciata scappare con te, che la mia poesia non erano altro che vacue rime raffazzonate.” – e gliene fa imparare a memoria un’altra che dovrà dirle, dal gusto moderno, come quelle che pare scriva l’uomo che convive con la ragazza.

No, non preferisce recitargliele lui stesso, perché “Io non ho nulla di pendente con quelle persone.” – che però non cessa d’inseguire, seppure a distanza. Con “le persone che hanno tradito la mia fiducia. Non sono io quello che deve chiedere scusa, a nessuno. Quelli che hanno tradito la mia fiducia possono venire da me e…” – va bene, ho capito, sei una bestia che soffre e che vuol guarire senza chieder nulla a nessuno. Infine gli dice: “… se muoio, puoi anche andarle a dirle da parte mia che mi può anche seppellire.”

Il suo figlio-servitore va da Ásta e le recita quanto le è dovuto, anche se lei ne farebbe a meno: “Lei le ascoltò e le si scaldò lo sguardo a quella poesia, le si allentarono i tratti del viso, come per il pianto o la rabbia, ma non disse nulla, o meglio, lasciò inespresso tutto quel che avrebbe voluto dire, e si voltò.”

Lei nega l’ipotesi di perdonare al padre, né d’essere perdonata, ma dice a Gvendur di dirgli: “mai finché vivrò tornerò da Bjartur di Sumarhús, e per quel che mi importa può anche seppellire la mia carcassa.”

Il capitolo 71. Troll in autunno narra di Brynhiludr, la massaia dell’uomo indipendente che va in paese e porta a casa ogni ben di Dio (anzi: dio, con la minuscola). Bjartur non ha… nulla! Non riesco a commentarlo, è troppo perfetto. Dico solo che alla fine lui la caccia di casa. Riporto il capoverso finale: “… e Bjartur si chiuse la porta alle spalle e uscì per i suoi lavori. Per tutto il giorno rimase col viso gonfio di pianto, ma non disse nulla. Il giorno dopo se n’era andata.”

Sgomenta il capitolo successivo, 72. Poi gli ideali si avverano. “… furono promulgate leggi sul condono sistematico di tutti i debiti più ingenti dei contadini, così regno una gran felicità fra tutti coloro che avevano possedimenti sufficientemente enormi da aver accumulato enormi debiti.” – quelli furono liberati dalla dipendenza. “E gli altri allora? Continuarono a tribolare come prima, soggiogati dalle…”

Analisi economica di Laxness: “Non ci si guadagna nulla a offrire buone condizioni a chi non è ricco; i ricchi sono gli unici a poter accettare delle buone condizioni. Essere poveri è semplicemente la peculiare condizione umana…” – la più diffusa nel mondo.

Bjartur sta perdendo la casa, ma “non era mai stata sua abitudine immusonirsi per le cose che perdeva, non alimentare mai il suo dolore, è meglio; piuttosto accontentati di quel che ti resta, quando ormai hai perso quel che avevi…” – e ora non gli resta che ricordare alla suocera “del tuo casale a nord della brughiera di Sandgilsheidi, cara Bera?” – la quale, in quella casa ormai perduta, “non è mai stata casa mia. Ci ho solo passato le notti come ospite.” Traslocano.

Epilogo: Padre e figli, “erano affamati”. Gli operai sono in sciopero. Uno di loro ruba una forma di pane e porta i due dai suoi colleghi. Gvendur mangia un po’ di quel pane, poi tocca al padre, altrettanto bisognoso di cibo. Non in cambio di quel tozzo, ma chissà perché, Bjartur dice al figlio: “Senti, tu resti con questi ragazzi, Gvendur. Chissà che non ti diano prima o poi l’America che cercavi tanto l’anno scorso.” Uscendo, Bjartur “sentì di aver ricevuto la più grossa sconfitta della sua vita; se ne vergognava talmente che…”. Pensando al figlio che aveva ceduto, si disse: “Uno non è indipendente se non ha il coraggio di restare solo.” Vede una bimba, la chiama Sóla, è invece Björt, che la porta in casa, da mamma Sóla.

“La marea della sua forza morale non si era mai ritirata tanto come in quella notte appena trascorsa e nel mattino che ne era seguito: sì, era opinabile che potesse definirsi ancora un uomo indipendente.” – quando una fede diventa opinabile significa che la primavera ormai è inoltrata e la neve si sta sciogliendo.

Sóla lo vede s’impietrisce. In tempi ravvicinati dice quattro volte “Papà,”, “Papà!”, “Papà,”, “Papà”. Guardando il neonato, Bjartur dice: “Perdiana, com’è minuscolo, disse. Sì, il genere umano è ben misero se lo si guarda com’è in realtà.” Sóla non vive più col suo grande amore, che l’ha abbandonata a se stessa e alla vecchia che abita in quella catapecchia.

Com’è diventato ciarliero, ‘sto indipendente: “È sempre stata mia opinione, disse lui, che uno non dovrebbe mai perdersi d’animo finché vive, anche se gli hanno portato via tutto. Uno possiede sempre il respiro che gli alita dentro, o perlomeno c’è l’ha in prestito.” Quando vede la propria nonna, che la credeva morta, le dice: “Sì, ero morta, nonna”, e se quella si lamenta che tutti muoiono tranne lei, lei conferma: “Sì, ma adesso sono risorta dalla morte, nonna.” – la quale non crede che sia un fatto possibile.

“Il giorno dopo, Bjartur continuò a traslocare i suoi averi…” – e poi compie un gesto empio, lui, che è così privo di pietas, anzi, la cui pietà, la cui com-passione era volta unicamente per la propria indipendenza. “Afferrò a due braccia la lapide che le aveva eretto” – a quella donna, a “Gunnvör buonanima” – “e la fece rotolare giù dall’orlo del burrone. Adesso per la prima volta sapeva che non era possibile affrancarla da Kolumkilli…” – lo spirito che l’aveva dannata.

Vorrei tanto chiederti, Laxness, perché la piccolina ha un nome che tanto ricorda quello del nonno putativo? In attesa della risposta, ti riporto per l’ennesima volta: “… il contadino autonomo non sfuggirà mai e poi mai alla sua vita di stenti, continuerà a esistere nell’afflizione finché l’uomo non è riparo all’uomo ma il suo peggior nemico. La vita del contadino autonomo, la vita dell’uomo indipendente, è per sua natura una fuga da altri uomini che cercano di ucciderlo.” – o soltanto lo feriscono, a volte mortalmente.

Sóla sta male, sputa sangue ma promette a papà di restarle per sempre vicina e di non morire presto. Sono due particelle per nulla parenti fra di loro, ma per sempre correlate, entangled direbbe Bohr. Una delle poche fedi che mi sono rimaste: ogni scrittura richiede una reazione, come ogni opera musicale necessita di un’interpretazione. Immaginiamoci Zolà che, nel descrivere la naturalità di cose e persone, si rifaccia all’intima memoria di quel mondo perduto, come un Proust, per esempio, per rievocare quel che non è più e che sarà per sempre, ricorrendo, com’era solito il fanciullino di Pascoli, a quel flusso di coscienza che caratterizzò l’opera maggiore di Joyce e che è da sempre covata dentro di noi, che come il sibilo di un acufene talvolta si riversa nella coscienza ché, come già capitò a tanti, fra cui l’amato Hesse, il fine è di cogliere di un’anima quel che la differenzia dalle altre e quel che a loro l’assimila. La somma di questi menti geniali non reca unicamente all’autore di Gente indipendente. L’Autore del Libro Universale, di cui cianciava Borges, è il novero di tutti gli scrittori che ho finora affrontato, da pari a pari, perché diversamente li schiverei, e tra cui spicca il grande isolano Halldór Laxness.

Colgo, nella Postfazione di Brad Leithauser, poeta statunitense, che: “esistono libri belli, esistono libri magnifici, e ce ne può essere uno che è addirittura qualcosa di più: il libro della nostra vita.” – probabilmente, come i gatti, io ne ho tanti quante sono le mie vite.

“Ciò di cui sto parlando è una sorta di idillio imperituro, nel quale le mende di un libro sono tanto affascinanti quanto le imperfezioni sul viso dell’unica persona che si ama.” – io sono poligamo, forse. Ancora non so se amo più L’idiota, Lo straniero, Dissipatio H.G., Il deserto dei tartari, Sexus (di quell’Henry che tu citi) e ora ho appena conosciuto questa fresca islandese dagli occhi sbilenchi e dalle guance antitetiche! E mi sono di lei infatuato!

“Io devo continuamente tenere a freno la mia alterigia di sospettare di essere l’unico lettore di Gente indipendente…” – Brad, i puntini sono tuoi. A cosa servono gli idealismi se poi vengono utilizzati per nascondere i latrocini? L’idealità è un motore che cessa prima o poi di funzionare, o per mancanza di carburante, oppure perché si fonde per carenza di liquido. È un fatto naturale, cosmico. Ringrazio te per avermi svelato tante cose che m’erano sfuggite, per esempio il significato della figura di Nonni (per cui voi, ipocriti miei lettori, chiudete ora questa mia reazione e leggete il libro!). Anche dalla Nota del traduttore ho imparato una caterva di concetti che ignoravo. Questo è il compito del lettore: rubare il pane altrui, mangiarlo e donare il proprio che, nel frattempo, ha finito di cuocere nel forno.

Halldór Laxness, Gente indipendente, Iperborea, 2004

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