ytali. - Il contributo dei mercanti ebrei del Ghetto al commercio di caffè della Serenissima

2022-06-25 05:50:27 By : Ms. Sophia Ge

Questo breve articolo intende far luce su un aspetto poco noto del negotio del caffè sotto la Serenissima: l’impronta impressa nel corso del Settecento dai mercanti ebrei veneziani nei traffici di una merce esotica che, divenuta irrinunciabile per i consumatori, apportò buoni profitti e occupazione fino a ricoprire un ruolo centrale nel sistema economico veneziano. Il commercio del caffè assunse un rilievo primario anche grazie alla sua connessione ai gangli del sistema produttivo manifatturiero e col settore della navigazione. Un’impronta importante, che viene ricostruita attraverso fonti d’archivio considerando sia vicende individuali sia l’attività della comunità intera residente nel Ghetto. Proprio in quest’ultimo ambito, l’ampia diffusione di attività legate al traffico di caffè all’interno del Ghetto costituisce un tratto del tutto originale perché parrebbe rivelare l’uso di un bene economico a beneficio collettivo, in un’ottica di sostegno offerto ai fratelli meno abbienti e di considerazione dei vincoli di solidarietà di comunità al di là della sfera degli interessi individuali di natura esclusivamente economica.

Nell’ultimo secolo della Repubblica alcuni residenti del piccolo serraglio in cui erano relegati seppero muoversi da protagonisti nell’orizzonte internazionale del florido commercio del Levante, sia uscire dal mortale deliquio in cui esso si trasformò verso la metà del secolo – parole dei magistrati preposti al commercio – per un intreccio complesso di fattori interni e esterni, non ultimo lo sconvolgimento dei circuiti mondiali del caffè causato della commercializzazione del caffè coloniale di Francia. In seguito gli ebrei veneziani, come grandi introduttori (importatori dai paesi turchi) e speditori (grossisti fornitori interni delle botteghe veneziane, dello Stato da mar e quello di Terra, ma anche degli stati esteri) contribuirono enormemente al successo della ristrutturazione operata nel settore caffeario dal governo, che dal 1750 orientò consumi e rifornimenti verso i popoli dello Stato da terra. Si può dire in definitiva che a loro si può ascrivere buona parte del merito del mantenimento dei consumi di caffè a Venezia tra i più alti dell’epoca: circa 17 milioni di tazzine all’anno nella città e nei territori dello Stato da terra.

Una pagina, quella scritta dagli ebrei nel negotio del caffè, che fu per forza di cose anomala perché si discostò dai percorsi tracciati dai tanti commercianti e caffettieri veneziani e di diversa confessione e provenienza operanti nella città. Tale difformità si riscontra sin dai primi passi della vendita pubblica del caffè in bevanda nella città, nella prima metà del Seicento, quando il mestiere era libero, non soggetto a imposizioni e basato sulla vendita vagante, praticata inizialmente da immigrati levantini, in modo analogo a quanto avvenne a Londra, Parigi e più tardi a Vienna.

Mentre, infatti, tali ambulanti circolavano liberamente per la città proponendo, oltre alla bevanda nera, prodotti quali acquaviti e vino portandosi appresso semplicemente dei fiaschi e dei cesti o apprestando dei banchetti amovibili, gli ebrei rimanevano circoscritti nell’angusto spazio delle muraglie del ghetto. 

Altre limitazioni furono imposte alla nazione delli hebrei quando vendita e distribuzione del caffè vennero regolamentate con l’istituzione del Partito del caffè e ghiaccio nel 1680-81, la cui gestione fu affidata all’Arte dell’Aquavita che la detenne fino al 1798 (salvo rare eccezioni di affidamento del partito a persone estranee all’arte). Ai residenti del serraglio fu infatti preclusa l’iscrizione all’arte, necessaria per esercitare il mestiere del caffettiere e aprire botteghe nella città.

Essere dispensati da tutti gli obblighi della mariegola (statuto della corporazione) potrebbe erroneamente apparire quasi come un’agevolazione: gli ebrei in effetti evitarono il pagamento delle quote relative ai vari gradi di progressione di carriera da garzoni a lavoranti a capomaestri; si pensi che quest’ultima dagli iniziali dieci ducati nel 1670 lievitò a cento nel 1746. Non esborsarono come i membri dell’arte la propria parte per coprire l’ammontare dell’appalto di distribuzione del caffè, non versarono il taglione per farsi sostituire da galeotti nella flotta veneziana, né le luminarie per le candele sugli altari delle chiese; e tantomeno i 10 o 12 soldi e più a libbra all’appaltatore, che era l’unico a rifornire le botteghe.

Permettere un risparmio agli esercenti del Ghetto è tuttavia quanto di più estraneo alla logica della corporazione e dell’Erario si possa immaginare. I commercianti ebrei infatti erano tenuti a stipulare un accordo particolare con l’Arte di Aquavita che comprendeva un’imposta in beneficio della corporazione, presumibilmente tutt’altro che lieve (non definita nei documenti), cui si aggiungevano tansa e taglione da versare in solido come comunità.

D’altro canto è anche vero che tale accordo paradossalmente garantiva una maggior libertà rispetto ai caffettieri veneziani perché la comune considerazione del recinto degli ebrei come territorio a sé, insieme alla sua ridotta estensione, fece sì che non fosse necessario stabilire un tetto al numero di botteghe da caffè, né assoggettare l’area alle norme correnti sulla loro dislocazione. In Ghetto non fu applicata la legge della distanza dei passi in vigore per tutte le contrade della città (eccetto nelle Isole di San Marco e Rialto, dove le botteghe potevano essere anche l’una a ridosso dell’altra grazie alla grande affluenza di consumatori). Questa norma, certo superflua per il Ghetto, prevedeva che un capomaestro non potesse avviare un esercizio se attorno al sito da lui individuato vi fosse un’altra bottega da caffè nel raggio di cento passi. 

Quanti erano dunque gli esercizi in cui gustare una tazzina di caffè del recinto delli hebrei?

Durante tutto il Settecento i catastici del Ghetto (1713, 1739 e 1771 redatti in occasione delle redecimazioni previste) ne attestano solo due. Nel 1713 le botteghe si trovavano sulla Strada Maestra del Ghetto Vecchio, entrando dalla porta di Cannaregio, sul lato destro prima del Campiello. Fatto piuttosto singolare, esse erano contigue, forse per rispondere alla domanda degli ospiti dell’albergo di 24 stanze, di alcune locande e anche di un ospedale per i poveri. Erano gestite da Lion Caravaglio e da Giacob Todesco, entrambi in affitto. Nel 1739 una passò a Moisé Cabiglio e l’altra a Elia Todesco. Nel 1752 in uno dei due caffè subentrò Benetto Sulam; mentre David Cuzzari (o Cutner) spostò l’altro vicino al Ponte degli Agudi (oggi non più esistente, che al tempo divideva il Ghetto Vecchio da quello Nuovo) in una bottega della sua famiglia, ch’egli mantenne attiva almeno fino al 1781.

Il caffè era venduto anche in grani presso i negozi degli specieri di grosso (droghieri): nel 1760 da Gasparo Vincenti, che era anche mandoler (venditore di mandorle), nel 1771 da Domenico Rossi in una bottega in Calle del Bonfil nel Ghetto Vecchio. Conosciamo anche i nomi di altri specieri e caffettieri attivi negli anni cinquanta (si veda la tabella alla fine), ma le fonti non danno indicazioni sulla loro sede.

Dal quadro presentato è evidente che la redditività del commercio del caffè costruita dagli ebrei non derivò dai ricavi della vendita al minuto del caffè in grani, né dai guadagni delle botteghe di caffè: una cicara (tazzina) costava ai consumatori 4-5 soldi, ammesso che i prezzi al minuto fossero gli stessi che nel resto della città. 

Posto che alla Nazione degli ebrei le provvide leggi della Repubblica hanno sempre vietato poter aver interesse ne nelli appalti ne nei dazi per la loro nota avvedutezza, e sagacità – come scrissero i 5 Savi alla Mercanzia –, l’unica via loro permessa fu quella dell’attività di introduttori e di speditori. Incrociando i dati dei Registri dei dazi con quelli dei catastici del Ghetto, è stato possibile individuale novantaquattro persone dedite al negozio di caffè a diverso titolo e con differenti esiti e impegno, che non sono poche in un’area così ristretta come quella del serraglio (si veda la tabella alla fine). 

Alcune ditte erano in grado di movimentare carichi anche di una tonnellata al mese e attorno a questi eminenti mercanti vi era un sottobosco di attività dal profilo più contenuto o addirittura modesto perché si trattava di commercianti che partecipavano occasionalmente al traffico del caffè investendo come parcenevoli nelle navi dei mercanti più grossi o che facevano ordini per vendere caffè nei loro negozi di vario genere o per sé stessi.

Considerando che l’incontro tra gli ebrei e la bevanda aromatica era iniziato molto prima che a Venezia e in Occidente, il dato non stupisce. Dalla presenza nel 1565 a Gerusalemme di cinque botteghe da caffè e di altre due a Gaza si deduce che già intorno alla metà del secolo il caffè in bevanda fosse comunemente diffuso in queste zone, come del resto negli altri paesi mediorientali. Già agli inizi del Seicento inoltre mercanti ebrei erano attivi nei circuiti caffeari che univano il Cairo, Tunisi e i porti mediterranei. Un aspetto questo da sottolineare in quanto meno noto rispetto alle conoscenze attuali, incentrate soprattutto sul consumo del decotto aromatico nel mondo arabo. 

Eccone una rapida sintesi. La pianta della coffea, originaria della regione di Kaffa, si diffuse all’inizio del XV secolo nello Yemen. Con la conquista di questa regione (1549-54) e delle coste dell’Etiopia (1555-7) sotto Solimano il Magnifico (1520-66), il cavet (caffè) penetrò in tutto l’impero ottomano e arrivò anche a Damasco nel 1534, probabilmente dai pellegrini di ritorno da Hegiaz. Negli anni trenta ad Aleppo e a Damasco sorse una tipologia di esercizio dedicato al consumo del decotto aromatico ottenuto dalla coffea, esportato nel 1554 nel quartiere di Taktacalah di Costantinopoli da due siriani (Hakim e Shams). 

Il rito di sorseggiare caffè, che aggregava anche per ore uomini di tutte le estrazioni, era allora ignoto in Europa. Le prime notizie sul consumo di una certa acqua negra bollente nei kahvedane della capitale ottomana arrivarono infatti a Venezia nel 1573.

Nella Serenissima la bevanda nera fu con tutta probabilità introdotta nella prima metà del secolo successivo dalle comunità foreste turche e turchesche, armene e probabilmente anche dai tanti ebrei levantini che si erano trasferiti a Venezia, un mix multiculturale che non esisteva in alcuna città occidentale. Purtroppo si tratta di ipotesi molto verosimili, ma ancora non documentabili. 

Molti ebrei furono attratti dalla politica della Repubblica di favorire il loro insediamento nella città, garantendo loro la possibilità di importare ed esportare tutte le merci permesse; lo scopo era di ampliare gli orizzonti del commercio e di incrementare le entrate dal gettito dei dazi di ingresso e uscita. Probabilmente nel caso del traffico di caffè la loro opera di intermediazione tornò utile quando, dal 1673, le autorità ottomane, per risolvere il problema degli insufficienti approvvigionamenti di caffè a Costantinopoli e nelle altre città dell’impero, imposero il divieto di vendere ai cristiani il caffè dello Yemen. Ma non fu così quando le proibizioni divennero più stringenti all’inizio del secolo successivo.

In Egitto, fin dagli anni settanta del Cinquecento il più grande centro di riesportazione di caffè del Mediterraneo, la Serenissima promosse la formazione di una vera e propria “colonia” veneziana ad Alessandria e al Cairo costituita da un folto gruppo di mercanti e agenti di ditte della madrepatria: nel 1745 si trattava di cinquantatré negozianti veneziani uniti in consorzio con otto case di negozio. Il Consorzio d’Egitto era lo strumento principale del commercio del Levante, che nell’ultimo secolo della Serenissima era un asse portante del sistema economico. È significativo che ben ventinove di questi siano stati uomini d’affari ebrei residenti nel Ghetto (cfr. tabella alla fine) e più ancora il fatto che, nello specifico, grazie a uno dei capi di questa comunità oggi disponiamo delle informazioni più complete e precise intorno alle potenzialità del commercio del caffè detto d’Alessandria e al suo valore rapportato agli altri beni importati e esportati nell’ambito del più ampio commercio del Levante. 

Si tratta di Isach Fua, dottor e cassier e membro del Collegio della Comunità del Ghetto, nel 1745 deputato del Consorzio dei negozianti del Cairo, nonché uno dei maggiori importatori di caffè a Venezia (approssimativamente 33,4 tonnellate nelle transazioni note tra il 1751 e il 1761), dove aveva vari magazzini in Calle della Regina e in Ghetto e due appartamenti nel Ghetto Vecchio. Su incarico del Patron del Cottimo (i cottimi erano imposte sulle merci importate ed esportate da mercanti veneziani nelle piazze di Alessandria e Damasco), egli nel marzo del 1745 scrisse una notizia circa la Storia del Caffè d’Alessandria.

Al tempo le magistrature preposte al commercio stavano studiando l’introduzione di nuovo dazio del consumo del caffè e certamente non vi era persona più adatta a fornire dati dettagliati e concreti. Il caffè costituiva il prodotto di punta dei traffici: era il prodotto più importato, perfino più del lino e della seta; procurava il 50% degli introiti totali e permetteva attraverso i cottimi di mantenere il Consolato del Cairo (costo di 6.000 ducati annui nel 1745). Ma le potenzialità economiche di questo bene andavano oltre perché, oltre a essere un prodotto di riesportazione, il suo commercio sosteneva l’intera economia manifatturiera veneziana, in particolare l’arte vetraria e le conterie (perle di vetro fatte a canna), e infine il settore della navigazione. 

La stretta connessione del caffè ai settori cruciali del sistema economico veneziano aveva spinto la Repubblica nel 1740 a decretare la publica Prottezione del caffè d’Alessandria, mentre i circuiti internazionali del commercio caffeario venivano travolti dall’immissione sul mercato del caffè coloniale francese. La tariffa fiscale nel dazio di ingresso di tale varietà fu modificata in moda da renderla vantaggiosa rispetto alle altre qualità con un rapporto di 1 a 30, a patto che i carichi fossero stati trasportati da una nave veneta partita da Alessandria. La deliberazione si inquadrava in un complesso di iniziative tese ad armonizzare politica fiscale, commercio marittimo, industria cantieristica e armamenti. 

Le preziose informazioni contenute nella relazione di Fua riguardano la natura del caffè d’Alessandria, che in realtà comprendeva due diverse varietà coltivate nell’Estremo Oriente, le loro qualità merceologica, i prezzi, le modalità di pagamento e le valute utilizzate. Insieme alle modalità di trasporto, si apprende anche il preciso tragitto percorso, per mare e con le carovane, per far arrivare il caffè fino al Mediterraneo e alle dogane della Serenissima.

Nello stesso anno in cui Isach Fua stendeva queste note si andava tuttavia profilando una svolta per i negozianti d’Egitto: lo Yemen andava perdendo il monopolio della produzione di caffè e l’Egitto il suo ruolo centrale. Il caffè d’Alessandria, che aveva trainato l’ascesa del commercio del Levante, ne trainò anche la discesa. Così scriveva a ragione il Collegio del loro Consorzio al Serenissimo Prencipe: allor quando L’Affluenza di questo Cappo urtasse in impedimenti, avrebbero il crollo tutti gl’altri Capi occasionali, e declinarebbe il Commerzio. Ormai il capitale delle Merci provenienti dal Cairo superava quello delle merci veneziane che partivano per quella Scala. Le ingenti spese di trasporto e assicurazione, l’eccesso della tassazione veneziana (la nuova tassa sul consumo) e di burocrazia, i divieti turchi ai cristiani di rifornirsi di caffè e infine il contrabbando di caffè delle isole francesi (Antille) portarono a una progressiva paralisi del traffico del Levante.

Molti dei commercianti d’Egitto non ressero: alcuni convertirono le loro attività, come Francesco Gidoni che si dedicò alle manifatture di panni; altri chiusero le loro case di negozio, come Gioseppe Loris al Cairo e Giuseppe Antonio Pedrini che aveva una fabbrica di damaschini e tenza; altri infine, invece di dichiarare fallimento, scelsero di vendere il caffè ai porti franchi di Livorno, Ancona e Trieste, o si diedero al contrabbando. Tutto ciò ebbe conseguenze nefaste sulle Arti della lana, della seta, delle conterie, della carta, delle robbe à lume e arti vetrarie. 

Dopo la rovina del Consorzio i negozianti d’Egitto più facoltosi continuarono comunque a pieno ritmo l’attività di importazione e ridistribuzione di caffè verso lo Stato da mar e da terra, avvalendosi dei contatti commerciali instaurati in precedenza, com’è attestato nel Registro dei dazi.

Poco più avanti delle due botteghe da caffè di cui si è parlato, si può dire avesse sede una sorta di quartier generale del caffè.

Si trattava di uno degli edifici più alti del Ghetto per i suoi sette piani più le case sotto i coppi e un belvedere, tanto da esser definito casa-torre: la Casa della Scala Matta, tuttora esistente (n° civico 1294), che si trova, entrando dalla porta di Cannaregio, dopo il Campiello delle Sinagoghe e la Calle Sporca. Il palazzo, dove risiedeva Isach Fua, era sede di una delle più importanti imprese di speditori e droghieri di Venezia: la Ditta degli eredi Gio Maria q. Alberto Astori, che avevano dato in affitto quasi tutti gli appartamenti, i sottocoppi e i magazzini in loro ragion (posseduti) dell’edificio, specie ad altri importatori ebrei di caffè e al caffettiere Caravaglio. Per dare un’idea del volume dei loro traffici, si pensi che solo nel 1751 gli Astori ridistribuirono 482 tonnellate di caffè d’Alessandria. 

In una casa attigua a quella di Fua, alloggiava Daniel Bonfil (entrambi erano affittuari degli Astori), che negli altri quattro appartamenti di cui disponeva nell’edificio pose la sede della Ditta di Daniel Bonfil di Costantinopoli e il figlio Jacob, un altro colosso del commercio di caffè. Ex negoziante d’Egitto, Daniel aveva orientato la sua attività verso i mercati di Marsiglia e Costantinopoli, ma inviava a Venezia enormi carichi di caffè: a titolo esemplificativo la Dogana dello Stallaggio registrò ben 70, 2 tonnellate (233.059 libbre) arrivate a suo nome tra l’ottobre e il gennaio del 1753. Quando i Bonfil erano assenti, lo smistamento degli arrivi e la loro riesportazione era affidata alla ditta di Giacomo dal Ben. 

Sempre nel Ghetto Vecchio, in Calle dell’Orto, abitava anche un altro introduttor di grande calibro: Aron Usiel (59 tonnellate di caffè importato tra il 1752-57). Dopo esser riuscito a ottenere dai fratelli dell’Aja, Amsterdam e Londra un prestito di 100.000 ducati per tentare di evitare il fallimento dell’Università degli ebrei veneziani, era divenuto membro del Consorzio del Cairo e Alessandria. In caso di necessità, le sue spedizioni a Venezia erano ricevute da David Mendes, introduttor e speditor dal traffico rilevante, che viveva a pochi metri di distanza verso delle sinagoghe. 

Altro commerciante d’Egitto importatore dal Levante era Isach Treves di Mandolin Emanuel, erede di un’importante azienda mercantile che da Costantinopoli operava nel nord Europa e nelle Americhe. I suoi carichi di caffè (8.800 chili ad esempio nel 1764) venivano stipati in alcuni locali di sua proprietà alla Giudecca, in ben altri otto vicino e all’interno del Ghetto e nei depositi della sua residenza nel Ghetto Novissimo sopra il Ponte degli Ormesini sul rio di San Girolamo. Certo il caffè era solo uno dei settori cui questo potente armatore si interessava; aveva infatti ideato la “Compagnia veneziana del Baltico per la Russia, la Svezia e la Danimarca” e fondato nel 1724 un’impresa commerciale attiva anche nel settore del credito insieme a un banchiere di Londra.

Altri imprenditori e armatori ebrei nella seconda metà del secolo investivano nel traffico del caffè, ma occasionalmente. Un caso esemplare è quello della famiglia Vivante, originaria di Corfù, traferitasi a Venezia nel 1752 (il loro palazzo è di lato a quello Treves), che aggiunse il caffè alle sue svariate importazioni (olio, tessuti di seta, raso e velluto, frumento, riso, occhiali, cannocchiali, specchi, vetro soffiato) e che in seguito si occupò piuttosto di assicurazioni e patenti di navigazione. 

Dalle registrazioni delle transazioni emerge che i grandi importatori ebrei rifornivano spesso speditori del Ghetto: Fua ad esempio vende a Benetto Luzzato, a Abram Errera e a David Mendes. La circolazione all’interno del Ghetto, prima di prender la via della Terraferma e dell’estero, moltiplicava i profitti al suo interno. 

Ai margini operavano numerosi piccoli commercianti, i cui nominativi si ricavano dai Registri dei dazi: le quantità di caffè che arrivavano per loro alla Dogana dello Stallaggio erano di modesta entità e discontinue. Incrociando i loro nomi con i dati catastici del Ghetto, si può ricostruire una fitta rete di relazioni commerciali che rende bene l’idea del Ghetto come di un mercato operoso e sempre in funzione. Alcuni di essi avevano botteghe, moltissimi avevano magazzini. Si smerciava caffè in botteghe di diverso tipo: interessante è il caso del beccher Simon Farinella, l’unico macellaio del Ghetto, che figura come speditor di caffè, tant’è vero che nel 1753 nel suo negozio aveva una giacenza di ben 120 chilogrammi di caffè. 

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L’impressione è che i mercanti più facoltosi coinvolgessero i fratelli più poveri nel traffico di caffè in modo da procurar loro una fonte di investimento, anche attraverso modeste movimentazioni. Un’ipotesi stimolante, da sviluppare, che trova terreno nel fatto che le redecimazioni erano ripartite e pagate in solido dalla comunità, e che trova fondamento nei forti legami di solidarietà comunitaria esistenti nel Ghetto. Il negozio del caffè dunque non sarebbe stata un’attività di natura esclusivamente economica, ma un mezzo per sollevare le sorti dei fratelli meno abbienti e sostenere l’economia dell’intera università degli ebrei.

Elenco dei residenti del Ghetto impegnati nel commercio del caffè [In grassetto i membri del Consorzio d’Egitto. Gli anni indicano il periodo di attività]

Cività Marco q. Salomon 1750-53

Cutner David q. Abram (o Cuzzer o Cuzzari) 1752-81

Sulam Benetto (caffettier e introduttor) 1753

Todesco Elia (caffettier e speditor) 1750-60

Astori Gio Batta (specier) 1751-53

Vicenti Gasparo (specier e mandoler) 1760

Abenacar Jacob (introduttor e banchiere)1750-53

Avendana Abram (o Abendna o Bendana introduttor) 1757-61 

Aboaf Fonseca Alessandro (introduttor) 1754-60

Ditta Eredi io Maria q. Alberto Astori (speditori e specieri) 1750-61

Bonfil Daniel q. Jacob (introduttor e speditor) 1745-62

Bonfil Jacob (introduttor e speditor) 1750-62

Bueno Raffael Vita (o Bono) (introduttor) 1755-61

Curiel David (introduttor e speditor) 1750-58

Curiel Jacob (introduttor e speditor) 1750-58

Fanno Beniamin (o Fano) (speditor) 1751-60

Farinella Simon (speditor e beccher) 1753

Isach Fua (o Foa o Foà) (introduttor e speditor) 1740-61

Gentilli Isach (o Gentili) (introduttor) 1750-56

Grassini Pietro Caliman (speditor) 1750-56

Lanchiano Mosé S. (introduttor) 1745-50

Levi dal Banco Isach (introduttor) 1748-49 e 1753-60

Loris Zuanne (introduttor e speditor) 1745-61

Della Man Isach (o Dalla Man) (introduttor) 1750-61

Marpurgo Aron (o Morpurgo) (speditor) 1755

Mendes David (introduttor e speditor) 1750-54

Mora Giuseppe Maria (introduttor) 1745-50

Mordo Elia d’Isach (introduttor e speditor) 1755

Pase Aron q. Abram (speditor) 1751-59

Pase Samuel Vita (o Pace) (introduttor) 1750-51

Pedorinj Gio Batta (introduttor) 1745-50

Pedrini Giuseppe Antonio q. Bortolo (introduttor) 1745-61

Pedrini Gio Domenico q. Steffano (introduttor) 1745-59

Racà Isach (o Raccà) (introduttor) 1745-50

Racà Prospero d’Abram (o Raccà) (introduttor) 1745-48

Rossi Antonio (specier e speditor) 1751, 1754 e 1761

Sachi Gioseppe q. Gio (introduttor) 1745-50

Sachi Pietro (o Zachi)(introduttor) 1745-50

Salon Gabriel (speditor) 1750-53 

Salom Samuel q. Jacob (speditor) 1750-53

Sulam Bonagiundo d’Iseppo (introduttor) 1745-50

Treves Isach di Mandolin Emanuel (introduttor e speditor) 1754-62

Treves Sara (speditor e parcenevole)

Usiel Aron (o Uziel o Uxiel) (introduttor e banchier) 1745 e 1751-61

Vita Vital (o Vitali) (introduttor) 1751-61

Sorzeto Anselmo Vita (o Sorzetto) 1739

Venezia gli ebrei e l’Europa 1616-2016, Marsilio Editori, Treviso, 2016

D. CALABI, Venezia e il Ghetto. Cinquecento anni del “recinto degli ebrei”, Bollati Boringhieri, Torino, 2016

C. VIVENTE, La memoria dei padri: cronaca, storia e preistoria di una famiglia ebraica tra Corfù e Venezia, Casa Editrice Giuntina, 2009

Le commerce du café avant l’ére des plantations coloniales, éspaces, réseaux, societés (XV ͤ- XIX ͤ siècle), édité par M. TUCHSCERER,

Institut français d’archéologie orientale, Le Caire 2001

G. LEVI, I commerci della Casa Daniel Bonfil e figlio con Maarsiglia e Costantinopoli (1773 – 1794), in Venezia. Itinerari per la storia della città, ed. Stefano Gasparri, Giovanni Levi, Pierandrea Moro, Mulino, Bologna, 1997

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T. PLEBANI, La bottega del caffè e i caffè veneziani tra ‘770 e ‘900, a c. di D. REATO – E. DAL CARLO, Arsenale editrice, Venezia 1991

M. BERENGO, Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, Estratto dal vol. ITALIA JUDAICA, 1989

R. CALLIMANI, Storia del Ghetto di Venezia, Rusconi, Milano, 1985

G. CARLETTO, Il Ghetto veneziano nel Settecento, Carucci editore, Roma 1981

Cinque Savi alla Mercanzia – Prima serie – buste 10, 350 (fascicolo 232), 364 (fascicolo 47), 967. Notificazioni delle spedizioni di caffè (vol.3)

Inquisitorato sopra la regolazione delle Arti – buste 2 e 16

Il ghetto di Venezia oggi nel servizio fotografico di Sandra Stocchetto che illustra l’articolo

Sandra Stocchetto si è laureata in Storia dell’arte all’Università degli Studi di Venezia Ca’ Foscari con una tesi sulla diffusione del manierismo di Parmigianino attraverso le stampe. Ha catalogato le stampe d’apres Parmigianino in possesso del Museo Correr di Venezia. Ha studiato Tommaso Landolfi. Attualmente insegna letteratura e storia negli istituti statali superiori. Le sue pubblicazioni: - Le origini dell'acquaforte italiana di riproduzione in «Venezia Arti». Bollettino del Dipartimento di Storia e critica delle Arti dell'Università di Venezia, 5, 1991. - collaborazione alla stesura e supervisione della guida Venise, Gallimard - Editions Nouveaux-Loisirs, Paris 1992, in seguito ripubblicata e tradotta dal Touring in varie lingue. Ultima edizione Gallimard nel 2014. - L’animalità in Landolfi come tramite per una riflessione ontologica, in «DIARIOPERPETUO». Bollettino del Centro Studi Landolfiani, A. V, n. 5, Salerno 2001, A. V, n. 5, Salerno 2001.

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